martedì, febbraio 11, 2025

💜Il Labirinto

 "Il Labirinto" 


1. I giro


1.1. Die Welt ist nie, son­dern welt­et (M. Hei­deg­ger)


L’ in­ci­pit è il pe­lein-​welt­en, la con­si­sten­za del non-​nulla in­scin­di­bil­men­te in noi unita al trans-​cor­re­re dei pen­sie­ri: il sem­pre già dato apo­re­ti­co ini­zio al no­stro es­se­re-​pen­san­ti che pen­sa­no-​enti. E ciò com­por­ta l’i­ne­vi­ta­bi­le diai­re­ti­co ag­gi­rar­si nel La­bi­rin­to di chiun­que as­su­ma l’a­bi­to fi­lo­so­fi­co: e cioè del­l’uo­mo. Ma così come non ci può es­se­re uomo-​fi­lo­so­fo senza il ne­ces­sa­rio di­pa­nar­si di­nan­zi a lui del­l’in­tri­co la­bi­rin­ti­co delle vie del suo pen­sie­ro, non ci può es­se­re mondo-​la­bi­rin­to senza il suo ulis­sai­co an­da­re con la mente. E così, il che - è è co­stret­to al viag­gio nella mente che lo pensa, e tut­ta­via il viag­gia­to­re che pensa non po­treb­be pen­sa­re senza che esso-​sia.


I due corni del­l’a­po­re­ti­co di­lem­ma ori­gi­na­rio si sono, nella sto­ria del pen­sie­ro oc­ci­den­ta­le, lo­gi­ciz­za­ti in molti modi: in sin­te­si, si può ri­con­dur­li ai ter­mi­ni Io e mondo. Ma, come ha detto Hei­deg­ger, il mondo non è, ma si mon­di­fi­ca; e l’io non è, ma mon­di­fi­ca mondi. I ter­mi­ni de­vo­no di­ven­ta­re verbi, de­vo­no es­se­re ver­ba­liz­za­ti. E solo così il fi­lo­so­fo può co­min­cia­re a dire, sa­pen­do che non c’è ter­mi­ne al dire. Ecco al­lo­ra che le vie del dire cre­sco­no e fio­ri­sco­no in ven­ta­gli di in­nu­me­re­vo­li di­ra­ma­zio­ni, e però, nel loro dif­fe­ri­re , sem­pre trag­go­no ori­gi­ne dal pen­sa­re. Il mondo (i mondi) si strut­tu­ra e pren­de corpo in in­scin­di­bi­le re­la­zio­ne al­l’uo­mo che lo pensa e lo dice. E’ il mondo, que­sto (sono i mondi, que­sti), umano. Nagel ci ha in­se­gna­to che il mondo del pi­pi­strel­lo, mon­di­fi­ca­to dai suoi vis­su­ti di pi­pi­strel­lo, è di­ver­so, dif­fe­ren­te.Ecco al­lo­ra, pro­ce­den­do nel La­bi­rin­to, che ci siamo im­bat­tu­ti in nuovi bivi, in nuove dif­fe­ren­ze. Ma, pur tra­scen­den­do con que­sto pen­sie­ro-​detto re­la­ti­vo al mondo del pi­pi­strel­lo (e di ogni altro vi­ven­te ) il mondo umano ,il tra­scen­di­men­to è pur sem­pre opera della mente umana: è un andar oltre che non porta, nel suo dif­fe­ri­re, al di là del mondo umano, così come mon­di­fi­ca­to dalla mente umana. Esso resta un dif­fe­ri­re, un dia-​fe­rein , ove il dia si­gni­fi­ca un por­tar con­tro, non oltre,pur ad­di­tan­do­lo, l’oltre, e di­cen­do-​che-​è: con­tro i li­mi­ti del La­bi­rin­to, che, in quan­to tali, ri­ve­la­no la pre­sen­za di un oltre-​che-​è, ma, ap­pun­to, nel farne cenno, lo ri-​ve­la­no, come dice Cac­cia­ri. Perché sem­pre den­tro al La­bi­rin­to siamo. Siamo però è ter­mi­ne im­pro­prio, in­con­gruo al no­stro vi­ve­re da mor­ta­li: il no­stro es­se­re-​nel-​la­bi­rin­to è in­fat­ti un an­da­re, un in­fi­ni­to viag­gia­re, per dirla con Ma­gris. Un in­fi­ni­to che sap­pia­mo dover fi­ni­re, con­sa­pe­vo­li come siamo di es­se­re Bro­toi, mor­ta­li. Viag­gio che però, vi­ven­ti noi, non ha fine.


Le apo­re­ti­che bi­for­ca­zio­ni, dopo quel­la prima ed ori­gi­na­ria del­l’i­ni­zio, si vanno mol­ti­pli­can­do. Il La­bi­rin­to, lungi dal con­dur­re ad una usci­ta, si in­gar­bu­glia e com­pli­ca sem­pre più. Tut­ta­via, nel con­tem­po, di­sve­la sem­pre nuove vie, sem­pre nuovi spazi, e così as­su­me mor­fo­lo­gie sì sem­pre più com­ples­se, ma anche sem­pre più si­gni­fi­can­ti. I si­gni­fi­ca­ti co­stel­la­no il mondo che così si strut­tu­ra, e si ri­fe­ri­sco­no agli enti che lo com­pon­go­no, come a ciò-​che-​è. Tut­ta­via i re­fe­ren­ti , sono ter­mi­ni che, frut­to del no­stro pen­sa­re, astrag­go­no dal vi­ve­re-​pen­san­do-​an­dan­do, che non può con­si­ste­re, ter­mi­na­re. E così l’i­ne­stin­gui­bi­le necessità umana del fi­lo­so­fo di dar senso al mondo ed a sé-​nel-​mondo, lo co­strin­ge, nell’impossibilità di dar ter­mi­ne, al pe­ren­ne fi­lo­so­fa­re. Nes­sun si­gni­fi­ca­to, nes­sun in­sie­me di si­gni­fi­ca­ti, per quan­to vasto e pro­fon­do, può es­se­re esau­sti­vo, e così, con­fe­ren­do senso per­fet­to, dar ter­mi­ne al sem­pre in­com­ple­to ed im­per­fet­to dire. Nella sua in­suf­fi­cien­za, il dire degli uo­mi­ni co­strui­sce dia-​loghi, che nel pre­sen­tar­si gli uni agli altri si scon­tra­no di­sve­lan­do le loro as­sen­ze, pro­prio nel ri-​ve­la­re le verità che pur nel sem­pre avan­ti an­da­re col­go­no. Sì, perché anche la più scom­bi­na­ta delle af­fer­ma­zio­ni ver­ba­li dif­fe­ri­sce dal nulla, e, non po­ten­do ap­pun­to dire-​il-​nulla ( che non è pen­sa­bi­le uma­na­men­te in forma po­si­ti­va, non può esser posto, poiché non-è) nel suo dif­fe­ri­re dice sem­pre qual­co­sa.


Ci sono però ed ap­pun­to, molti modi di dire-​qual­co­sa. Nel La­bi­rin­to una delle vie mae­stre, che spes­so ci si ri­tro­va a per­cor­re­re fi­lo­so­fan­do, è pro­prio quel­la inau­gu­ra­ta dagli an­ti­chi saggi greci, ed il­lu­mi­na­ta dalle pa­ro­le pla­to­ni­che prima, e poi ari­sto­te­li­che, che mo­stra­no, ri­ve­la­no, il pol­la­chos dell’es­se­re. Si pro­du­ce così una du­pli­ce molteplicità: quel­la dei di­ver­si re­gi­stri men­ta­li e lin­gui­sti­ci nel rap­por­tar­si agli enti del sog­get­to, e quel­la dei sog­get­ti fra loro nel dia­lo­go. Il La­bi­rin­to, così, oltre alle sue sem­pre cre­scen­ti, ten­ta­co­la­ri vie, si riem­pie di sog­get­ti che per­cor­ren­do­lo ora si in­con­tra­no (e tal­vol­ta scon­tra­no) ora si al­lon­ta­na­no (per tal­vol­ta per­der­si). La fan­ta­sma­go­ri­ca gio­stra senza soste non è, pur nel­l’ef­fi­me­ro di ogni even­to che vi si svol­ge, priva di di­re­zio­ne di fondo: essa è data dalla trac­cia che ognu­no dei vis­su­ti al suo in­ter­no la­scia: e que­sta è la sto­ria. Sto­ria che nel suo in­con­clu­so an­da­re, tal­vol­ta sem­bra ri­pe­ter­si, ma non è mai ugua­le. Ogni giro, breve o lungo che sia, che ri­por­ta al me­de­si­mo punto del La­bi­rin­to, lo ri­tro­va co­mun­que cam­bia­to, perché ad ogni pas­sag­gio di ogni pas­san­te esso, pur me­de­si­mo, cam­bia, come ogni uomo, pur se stes­so, muta e cre­sce nella vita. Tal­vol­ta anche de­ca­de. Nel vor­ti­ce dei giri che il sin­go­lo e l’umanità in­te­ra com­pio­no, il pro­ces­so co­mun­que con­ti­nua. Con­ti­nua fra quel­l’a­po­re­ti­co ori­gi­na­rio in­ci­pit e l’i­ne­vi­ta­bi­le fine, del sin­go­lo e dell’umanità, la cui pre­sen­za-​as­sen­za si dà nel tempo.


Dun­que l’in­ci­pit del pro­ces­so (lo­gi­co-​lin­gui­sti­co-​fi­lo­so­fi­co) non è l’Arché, non è il Prin­ci­pio. Anche il di­scor­so ori­gi­na­rio è, in quan­to umano, im­per­fet­to. Ed è di ciò segno pro­prio l’uso del tempo im­per­fet­to nel ver­ba­liz­za­re l’O­ri­gi­ne degli enti che tro­via­mo in Ari­sto­te­le: to ti en einai , ciò che era l’es­se­re. Prima del tempo, che squa­der­na even­ti col­le­ga­bi­li dalla mente umana con in­fe­ren­ze più o meno forti. Prima del ma­ni­fe­star­si del mu­te­vo­le ca­lei­do­sco­pio dei fe­no­me­ni. Ed è que­sto un primo salto, da un piano al­l’al­tro del La­bi­rin­to, che ne di­sve­la di­men­sio­ni ul­te­rio­ri: una profondità che ne esu­be­ra l’a­rea, e di­schiu­de a nuovi per­cor­si, frut­to di un tra­scen­de­re i li­mi­ti del­l’o­riz­zon­te dato. I li­mi­ti però per­man­go­no, anche se di­la­ta­ti: il viag­gio con­ti­nua sem­pre den­tro il La­bi­rin­to, anche se ven­go­no così con­qui­sta­te nuove al­tez­ze, che per­met­to­no allo sguar­do di pe­ne­tra­re più a fondo, e, per così dire, die­tro agli enti, ed al loro ap­pa­rir­ci, of­fren­do la possibilità di for­mu­la­re più ra­di­ca­li do­man­de ( e poi, co­s’al­tro ha da fare il fi­lo­so­fo, se non que­sto?) e che ri­guar­di­no non solo il perché di qual­co­sa, e il perché di ogni ente, ma anche il perché dell’in­te­ro, dell’Archè come ciò per cui e da cui il non-​nulla.


2. II giro


2.1. To Ti En Einai (Ari­sto­te­le)


To ti en einai, ciò-​che-​era-​l’es­se­re. En, era: tempo im­per­fet­to, poiché l’im­per­fe­zio­ne è pro­pria del Tempo. E noi viag­gia­mo (vi­via­mo) nel tempo; pen­sia­mo e di­cia­mo nel tempo.Ciò di­schiu­de, a noi umani vi­ven­ti, ac­can­to al­l’i­nar­re­sta­bi­le mo­vi­men­to del pre­sen­te di­ve­ni­re e allo scon­fi­na­to aprir­si del so­prav­ve­nien­te fu­tu­ro, l’a­bis­so in­son­da­bi­le del pas­sa­to. Al pen­sar­lo, Jean Paul si dice che sve­nis­se. Ed è ben spae­san­te e fonte di ver­ti­gi­ne get­ta­re lo sguar­do della mente in que­sta di­re­zio­ne, per l’uo­mo. Per quan­to lo scan­da­glio spro­fon­di nel pozzo, non ne può toc­ca­re il fondo. L’im­per­fet­to al­lu­de al­lo­ra, nel suo an­da­re a ri­tro­so nel tempo, al fuori del Tempo: al Prin­ci­pio Primo. Esso può es­se­re pen­sa­to, ma, come ha detto An­sel­mo d’Ao­sta (nelle spes­so tra­scu­ra­te ri­spo­ste a Gau­ni­lo­ne), come «ciò che è mag­gio­re di ciò che la mente possa pen­sa­re».


E, poiché il dire umano di­scen­de e di­pen­de dal pen­sa­re, di ciò bi­so­gna o ta­ce­re, ac­cet­tan­do l’in­vi­to witt­gen­stei­nia­no, op­pu­re ri­cor­re­re al­l’u­so del­l’al­lu­sio­ne, del­l’ad­di­ta­men­to, della me­ta­fo­ra. O, ap­pun­to, come ha fatto Ari­sto­te­le, ado­pe­ra­re in modo im­pro­prio il lin­guag­gio ver­ba­le umano, e con l’im­per­fet­to-​dire quell’Oltre, che si può così de­no­ta­re, ma, se lo si vuole con­no­ta­re, ( e si è spin­ti a farlo da una forza in­coer­ci­bi­le, anche nella fi­lo­so­fi­ca con­sa­pe­vo­lez­za della spro­por­zio­na­ta di­men­sio­ne del com­pi­to, del­l’a­bis­so che, smi­su­ra­to e in­com­men­su­ra­bi­le, come Cu­sa­no ha mo­stra­to, si apre fra fi­ni­to ed in­fi­ni­to) si deve ri­cor­re­re al­l’al­tret­tan­to im­per­fet­to ed im­pro­prio lin­guag­gio ana­lo­gi­co. E ciò non solo nel co­na­to di dire il Prin­ci­pio Primo del­l’in­te­ro, di dire ciò che uma­na­men­te bal­bet­tia­mo da se­co­li come l’Uno, ma, se si è ben il­lu­mi­na­to que­sto pur breve trat­to del La­bi­rin­to, e si son ben visti i suoi cor­ri­doi e le pa­re­ti che in­fran­gi­bi­li li de­li­mi­ta­no, ciò vale per il pen­sa­re-​dire di ogni ente, ogni sin­go­lo (pro­prio nella molteplicità del loro pro­por­si, ma­ni­fe­star­si) ente.


Ciò-​che-​da-​sem­pre-​era, la ra­di­ca­le ori­gi­ne, si pone alla mente umana come una necessità non solo per l’in­te­ro del­l’es­se­re , ma anche per ogni par­ti­co­la­re non-​nulla e che in qual­sia­si modo si pre­sen­ti al­l’e­spe­rien­za. Se si vo­glio­no ra­di­ca­re i fe­no­me­ni (ogni fe­no­me­no) nel loro non-​nulla che per­met­te il loro ap­pa­ri­re, si deve fare que­sto salto non fat­ti­bi­le, e porsi din­nan­zi al­l’a­po­ria che ci co­sti­tui­sce, che nel co­sti­tuir­ci ci pone in con­trad­di­zio­ne. Il no­stro dire è pos­si­bi­le solo nel con­tra-​dire. La dia­let­ti­ca, nel dire, se di­men­ti­ca la sua apo­re­ti­ca li­mi­ta­tez­za ra­di­ca­le, in­cor­re nel­l’er­ro­re di cre­der­si per­cor­so as­so­lu­to, via unica ed ef­fi­ca­ce per usci­re dal La­bi­rin­to. Se lo sa, può (deve) con­ti­nua­re in­ve­ce a per­cor­rer­lo in­stan­ca­bil­men­te, come stru­men­to pri­vi­le­gia­to del pro­prio de­sti­no: quel­lo di con­fe­ri­re senso (Sinn­ge­bung) al­l’i­ti­ne­ra­rio che in esso si com­pie: alla vita.In que­sti mean­dri del La­bi­rin­to Cac­cia­ri si ag­gi­ra con que­sta in­stan­ca­bi­le te­na­cia, e fin da anni re­mo­ti. Il tema con­ti­nua­men­te ri­pre­so della dif­fe­ren­za è già pre­sen­te e for­ma­to nei suoi trat­ti co­sti­tu­ti­vi fin dai suoi saggi dallo Stei­n­hof, di cui ri­por­to qui un passo( Dallo Stei­n­hof, Adel­phi, Mi­la­no, 1980, pp.53-54):


L’in­ten­to di­strut­ti­vo [della dia­let­ti­ca] di­mo­stra, alla ra­di­ce, una dif­fe­ren­za me­ta­fi­si­ca tra il logos-​che-​dice e il che-​cosa-​detto. Ma ciò fi­ni­sce col ri­vol­ge­re la dia­let­ti­ca con­tro se stes­sa: ne ir­rea­liz­za la forma, di­sve­lan­do­ne l’in­su­pe­ra­bi­le di­stac­co dal­l’in sé della cosa, sulla cui esau­sti­va com­pren­sio­ne si fonda, in­ve­ce, il co­strui­re-​tra­sfor­ma­re della Ratio. Nei ter­mi­ni delle «ori­gi­ni»: il Logos vuol dire un Altro da sé, un luogo: Ale­theia, la cui forma con­trad­di­ce spie­ta­ta­men­te quel­la me­ra­men­te ri-​ve­lan­te della dia­let­ti­ca. La Ratio ty­pi­sche auf­bauend della «gran­de cor­ren­te» della Zi­vi­li­sa­tion non è che la straor­di­na­ria ri­mo­zio­ne di que­sta ori­gi­na­ria dif­fe­ren­za me­ta­fi­si­ca. (….) La dif­fe­ren­za stes­sa è per la sua dia­let­ti­ca segno di ma­lat­tia.


Ma, in­tro­dot­ti in que­sti vani del La­bi­rin­to, esso ap­pun­to con­ti­nua, e mo­stra nuovi var­chi oltre le stan­ze così rag­giun­te, nuovi im­boc­chi verso ul­te­rio­ri cor­ri­doi, pro­mes­sa di pos­si­bi­li nuovi per­cor­si. Nuovi - vec­chi, per­cor­si, perché sem­pre at­tor­no si gira, e molti di qui sono già pas­sa­ti, ma, come sopra ac­cen­na­va­mo, i luo­ghi non ri­man­go­no mai ugua­li, e ri­per­cor­rer­li com­por­ta sem­pre la con­qui­sta di vec­chio-​nuovi spazi, l’ac­cu­mu­lo di nuove espe­rien­ze. Al di là delle mol­te­pli­ci singolarità di que­ste,si pre­sen­ta la do­man­da ra­di­ca­le sull’in­te­ro, sulla sua Causa es­sen­di e sulla coin­ci­den­za o meno dell’in­te­ro del­l’e­spe­rien­za con l’in­te­ro del­l’es­se­re (che, come bene ha detto E. Agaz­zi, deve es­se­re ar­go­men­ta­ta dal fi­lo­so­fo a so­ste­gno di en­tram­be le tesi). Ac­can­to a Io e Mondo , si com­ple­ta così la tria­de dei ter­mi­ni della me­ta­fi­si­ca oc­ci­den­ta­le, e Dio e la pro­ble­ma­ti­ca teo-​lo­gi­ca ne ca­rat­te­riz­za­no la sto­ria. Ma, ap­pun­to, di teo-​logia si trat­ta. Se, come ab­bia­mo visto, e come Cac­cia­ri esem­plar­men­te mo­stra nei suoi scrit­ti, per ogni ente di cui si vo­glia dire il pro­prio pen­sie­ro, nel dirlo si ri-​vela la dif­fe­ren­za fra il logos-​che-​dice e il che- cosa- detto, l’in sé della cosa, e ciò vale anche (so­prat­tut­to, e l’in­vi­to an­ti­co del gno­thi seau­ton ce lo ram­me­mo­ra) per se stes­si, a tanto mag­gior ra­gio­ne la dif­fe­ren­za si im­po­ne per il di­scor­so-​su-​Dio.


Il no­stro di­scor­so su Dio, il no­stro ar­go­men­ta­re in­tor­no a Dio, è come ha detto C. Arata, un fi­lo­so­fi­co par­la­re de Deo (com­ple­men­to di ar­go­men­to), e non il par­la­re di-​Dio (ge­ni­ti­vo sog­get­ti­vo). Ciò che forse è sfug­gi­to ad Arata, è che, anche in que­sto caso, ri­ma­nia­mo den­tro il La­bi­rin­to, e nes­su­na umana in­tui­zio­ne può por­tar­ci fuori, e, se Dio-​non-​parla (ma, se lo fa, que­sta è Ri­ve­la­zio­ne, e non fi­lo­so­fia, e chi ascol­ta e dice è pro­fe­ta, e non fi­lo­so­fo) ciò che echeg­gia fra le pa­re­ti la­bi­rin­ti­che è voce umana fi­lo­so­fi­ca, e sem­pre de Deo. Con­sa­pe­vo­li di ciò, pos­sia­mo però, come per i pre­ce­den­ti casi, con­ti­nua­re i no­stri giri nel La­bi­rin­to, e, anzi, siamo co­stret­ti a farlo.


3. III giro


3.1. De Deo (C. Arata)


Dio, o l’O­ri­gi­ne. L’Uno, l’As­so­lu­to, l’In­con­di­zio­na­to, …. e tanti an­co­ra sono i nomi fi­lo­so­fi­ci di Dio. Ne di­scen­do­no ar­go­men­ta­zio­ni di di­ver­so re­gi­stro e tono, ma il tema è sem­pre quel­lo che qui si è vo­lu­to no­mi­na­re de Deo.Nomi fi­lo­so­fi­ci, ap­pun­to, e non nomi ri­ve­la­ti.


Detto que­sto, ci si può inol­tra­re nel terzo giro. Sem­pre at­ten­ti a non di­ven­ta­re, come Loewith ha detto bene di Hegel, pro­fe­ti alla ro­ve­scia, di­men­ti­can­do i li­mi­ti della no­stra mente umana, che per­man­go­no anche nella più ra­di­ca­le at­ti­tu­di­ne fi­lo­so­fi­ca. Il che non esclu­de af­fat­to che si possa (si debba) par­ti­re da un’in­tui­zio­ne . Ma, quel­la del fi­lo­so­fo, è pur sem­pre un’in­tui­zio­ne umana. E’ prin­ci­pio-​di-​ pen­sie­ri e non Prin­ci­pio-​del-​che-​è , nem­me­no del più in­si­gni­fi­can­te degli enti. Un apice della teo­ria, come ci ha in­se­gna­to Nicolò da Cusa, è im­pre­scin­di­bi­le, ne­ces­sa­rio luogo da cui muo­ve­re lo sguar­do sullo spet­ta­co­lo del mondo; punto in­de­ci­fra­bi­le, non col­lo­ca­bi­le nello spa­zio ester­no, ma da cui si svela al­l’uo­mo la pro­spet­ti­va di que­sto mondo, e gra­zie alla quale, nel­l’im­men­sa me­ra­vi­glia che ogni ap­pa­ri­re del non-​nulla, e per essa, da essa mossi, fio­ri­sce la do­man­da sul gran­de perché, sull’In­con­di­zio­na­to, che deve es­ser­ci dacché tale fiore sia sboc­cia­to.


Il thau­ma che scuo­te la mente vi­ven­te in ogni sua espe­rien­za vi­ta­le, ri­man­da a que­sto in­ter­ro­gar­si, a que­sto chie­de­re la Ra­gio­ne. Thau­ma che il vero fi­lo­so­fo vive con tale ter­ri­bi­le forza, da non poter non co­glie­re la necessità che la sua Fonte sia Altro-​da-​sé, pur sgor­gan­do dal più in­ti­mo di sé. Non la as­so­lu­tiz­za­zio­ne della Ratio, frut­to di un suo umano il­lu­so­rio co­strui­re da se stes­so, che pre­ten­de di darsi ra­gio­ne del che-è in ogni suo pro­por­si e nell’in­te­ro del suo pro­por­si, dun­que, è la ri­spo­sta ade­gua­ta alla scos­sa della tor­pe­di­ne che at­ti­va il chie­de­re, ma la con­sa­pe­vo­lez­za della pro­pria umana con­di­zio­ne , che come tale, per poter eser­ci­ta­re qual­sia­si atto vi­ta­le e men­ta­le, e dun­que anche il fi­lo­so­fi­co, deve pre­sup­por­re l’In­con­di­zio­na­to. E per non ca­de­re fin da su­bi­to in un’ auto con­trad­di­zio­ne, che ob­bli­ghe­reb­be la mente al si­len­zio, da qui deve pren­de­re le mosse per il suo dire, che è un dis-​cor­re­re.L’In­con­di­zio­na­to, la Fonte, come tale tra­scen­de il pen­sa­re-​dire umano, e, anche se con que­sti ed altri nomi è de­no­ta­ta, poiché solo per que­sta via que­sta no­stra di­pen­den­za dalla Tra­scen­den­za è co­mu­ni­ca­bi­le, ri­ma­ne av­vol­ta da un su­pe­rio­re Si­len­zio, che nien­te ha a che fare con lo scac­co che il dire-​umano in­con­tra se, non pre­sup­po­nen­do­la, si fonda sup­po­nen­te in se stes­so.


Un iti­ne­ra­rio quasi pa­ral­le­lo nel La­bi­rin­to (una sorta di ca­no­ne in­ver­so, per usare il lin­guag­gio della mu­si­ca), è per­cor­so da Cac­cia­ri, ma, come ve­dre­mo, da que­sto se­pa­ra­to da un sot­ti­le dia­fram­ma, cosicché porta ad esiti in parte di­ver­si ( in di­ver­si spazi del La­bi­rin­to, be­nin­te­so, non all’usci­ta).


4. IV giro


4.1. La mol­te­pli­ce tra­scen­den­za, Pol­la­chos le­ge­tai to on (Ari­sto­te­le)


Ed ogni esito è frut­to di un tra­scen­di­men­to posto in atto dal pen­sa­re-​dire umano, e dal com­mer­cio ver­ba­le che fra gli uo­mi­ni per­met­te l’a­per­tu­ra al dia-​logo. Il sem­pre oltre an­da­re den­tro il La­bi­rin­to, con-​di­vi­den­do le di­ver­se pro­spet­ti­ve, che per l’es­se­re-​si­tua­ti di cia­scu­no di­ver­go­no, e, pur nel loro di­ver­ge­re co­mu­ni­ca­no, pro­muo­ve un dia­lo­go che sem­pre va in­nan­zi, co­struen­do la sto­ria del no­stro umano pen­sa­re: in un con­ti­nuo tra­scen­der­si. La tra­scen­den­za, frut­to del­l’u­ma­no pen­sa­re-​dire-​co­mu­ni­ca­re, è dun­que mol­te­pli­ce.Alla molteplicità della tra­scen­den­za ope­ra­ta dal pen­sa­re-​dire –co­mu­ni­ca­re non può non cor­ri­spon­de­re la molteplicità del­l’ap­pa­ri­re degli enti (non di­men­ti­chia­mo che da lì ab­bia­mo mosso i primi passi in que­sto La­bi­rin­to). E lungo que­sto iti­ne­ra­rio ri­tro­via­mo Cac­cia­ri, che, nel ri­pren­de­re le ri­fles­sio­ni del neo-​pla­to­ni­smo, dice che, spin­ti dal thau­ma ori­gi­nan­te il ne­ces­sa­rio dis-​cor­re­re, ci si trova a per­cor­re­re «il cer­chio in­fi­ni­to che av­vol­ge l’es­sen­te (p. 103)» e a pre­di­ca­re l’es­sen­te come unum.


L’unum e i molti si toc­ca­no così in ogni punto che chiu­de l’in­fi­ni­to (apei­ron) anel­lo. Ma Cac­cia­ri vi giun­ge di­cen­do che unum non va in­te­so nel «senso ge­ne­ra­le e astrat­to che suona in to einai, ma nel senso del­l’in­fon­da­bi­le, im­pre­di­ca­bi­le singolarità del tode ti, anzi: del to ti en einai; qui sta il fondo e, ad un tempo, il cer­chio in­fi­ni­to che av­vol­ge l’es­sen­te(p. 103).» Il fondo im­pre­di­ca­bi­le del­l’en­te, però, nel pro­por­re alla mente la sua inat­tin­gi­bi­le realtà, non spin­ge a com­pie­re con necessità anche il salto al fondo, sì al­tret­tan­to in­fon­da­bi­le e im­pre­di­ca­bi­le, ma al­tret­tan­to pro­prio perciò reale, ge­ne­ra­le e astrat­to dai par­ti­co­la­ri, dell’Unum?


Certo, l’ei­nai, l’es­se­re, è, nella mente ra­zio­ci­nan­te, frut­to di astra­zio­ne da to on, dall’ente; ma l’ente, il to de ti, è dav­ve­ro il pri­mum fra le pre­sen­ze che si pro­pon­go­no al­l’e­spe­rien­za frut­to degli umani vis­su­ti? O non pre­sup­po­ne piut­to­sto il pre­sen­tar­si dell’in­te­ro, di un mondo? Non viene in­nan­zi­tut­to (pri­mum quoad nos, quan­to meno) mon­di­fi­ca­to un mondo, fin dal più ori­gi­na­rio Er­leb­niss vi­ta­le di ogni es­se­re umano? E non ri­man­da esso ad un fondo in­fon­da­bi­le e im­pre­di­ca­bi­le, ma pro­prio perciò reale? Alla Tra­scen­den­za? All’Unum? Sem­bra che, nonché al neo­na­to, già al feto, prima di na­sce­re, si pre­sen­ti un in­te­ro-​in­dif­fe­ren­zia­to-​che-​è, in cui io e mondo non sono di­stin­ti, e que­sto in­te­ro non può che gal­leg­gia­re sul mare in­fi­ni­to ed av­vol­gen­te del en, dell’era di se stes­so.Unum, pro­te­ron fusei, oltre che pros emas, prima an­co­ra dell’unum, che solo così può far emer­ge­re l’ente nel­l’u­ma­na espe­rien­za co­gni­ti­va. Da un più pro­fon­do e som­mer­so fon­da­le emer­ge in­nan­zi­tut­to un in­te­ro, che è, poi, alla luce della mente ma­tu­ra, fra­zio­na­bi­le in un mondo-​di-​enti di­stin­ti (e cia­scun ente è unum) tra cui l’ente-​sog­get­to-​che-​mon­di­fi­ca, di­stin­to ed unico, ma pur sem­pre in que­sto mondo di enti si­tua­to.


Al­lo­ra, quan­do la mente giun­ge al fi­lo­so­fi­co, prima an­co­ra di porsi la do­man­da sull’era dell’ente, do­vreb­be, sem­pre con­sa­pe­vo­le che il suo è un fi­lo­so­fi­co dire de Deo, in­ter­ro­gar­si sull’era dell’in­te­ro. Il pro-​blema della diade fe­no­me­no-​nou­me­no è a que­sta do­man­da con­se­guen­te, e, per­tan­to, tale do­man­da ri­sul­ta es­se­re, pur nella sua pro­fon­da por­ta­ta fi­lo­so­fi­ca, meno ra­di­ca­le. Il pro-​blema dell’in­te­ro, nel suo pro­por­si alla mente umana solo nel suo svi­lup­po pie­na­men­te ma­tu­ro, e, in molti casi, mai, non in­fi­cia la sua priorità sul piano della radicalità fi­lo­so­fi­ca. Si trat­ta, certo, di non con­fon­de­re in­nan­zi­tut­to i tra­scen­di­men­ti posti in atto dal diai­re­ti­co pro­ce­de­re del vi­ven­te-​pen­sa­re-​dire degli umani, con l’ad­di­ta­men­to del­l’in­di­ci­bi­le tra­scen­den­za. Ma poi, di at­tin­ge­re anche la necessità di pos-​porre anche que­ste mol­te­pli­ci, in­di­ci­bi­li tra­scen­den­ze, l’era di ogni ente, all’era del­l’an­cor più in­di­ci­bi­le Tra­scen­den­za. Ed è così que­sta, che si pro-pone come Pri­mum, come Unum, da cui de-​du­ce­re dis-​cor­ren­do tutto il resto.


L’i­ti­ne­ra­rio che nella vita la mente spin­ge a per-​cor­re­re nel suo dis-​cor­re­re ,è, per così dire, un moto con­tra­rio(an­co­ra un’im­ma­gi­ne tolta dalla mu­si­ca…) ri­spet­to a quel­lo che la vita per­cor­re dal suo emer­ge­re dall’era pro­prio di ciascuno. E ciò ci porta a ri­ba­di­re il no­stro per­pe­tuo an­da­re sem­pre den­tro al La­bi­rin­to, in que­sta vita. Ci porta anche ad orien­tar­ci verso nuove mete, nel La­bi­rin­to.


5. V giro


5.1. Il cen­tro del La­bi­rin­to, Noli foras ire ( S.Ago­sti­no)


Si im­po­ne a que­sto punto un nuovo modo di viag­gia­re, un nuovo orien­ta­men­to. La ri­cer­ca dell’usci­ta dal La­bi­rin­to, deve es­se­re so­sti­tui­ta dal cam­mi­no verso il cen­tro. Verso il cen­tro, an­ch’es­so, come il fuori, inat­tin­gi­bi­le, ma in­de­fi­ni­ta­men­te av­vi­ci­na­bi­le. Noli foras ire, in in­te­rio­re ho­mi­ne ha­bi­tat ve­ri­tas. Ve­ri­tas: coin­ci­den­za di realtà e co­no­scen­za. Non si esce dal La­bi­rin­to, e cioè né dall’uni­cum-​sem­pre-​si­tua­to che siamo in que­sta vita, né dal mondo(i mondi) mon­di­fi­ca­to in cui vi­via­mo.


L’i­nat­tin­gi­bi­le punto di per­fet­ta coin­ci­den­za di realtà e co­no­scen­za è den­tro: è il cen­tro del La­bi­rin­to. Cen­tro solo av­vi­ci­na­bi­le, asin­to­ti­ca­men­te ap­pros­si­ma­bi­le, e mai luogo di pos­si­bi­le pos­ses­so, di rag­giun­ta con­si­sten­za. Ed è ovvio che sia così: il La­bi­rin­to è apei­ron, e l’in­fi­ni­to non ha un cen­tro. Si può solo an­da­re-​verso-​il –cen­tro,vi­ven­do que­sta vita. Il viag­gio verso il cen­tro del La­bi­rin­to è la scel­ta di vita del fi­lo­so­fo au­ten­ti­co, ed il suo an­da­re è il fi­lo­so­fa­re-​pe­ren­ne. E’ il de­sti­no della fi­lo­so­fia, oltre che del sin­go­lo fi­lo­so­fo, e dell’isto­riar­si dei suoi segni sui muri e sul la­stri­co del La­bi­rin­to, la sua sto­rio­gra­fia.


Le vie che così con­ti­nua­men­te si vanno edi­fi­can­do for­ma­no fi­gu­re la­bi­rin­ti­che sem­pre nuove. Al loro in­ter­no si pos­so­no però di­stin­gue­re vi­co­li cie­chi, stra­de senza sboc­co ul­te­rio­re, e cer­chi e spi­ra­li sem­pre aper­te al­l’an­da­re, pro­mes­sa del di­schiu­der­si di sem­pre nuovi oriz­zon­ti. Molte, le prime, e, so­prat­tut­to di que­sti tempi, im­boc­ca­te da chi, ne­gan­do l’e­vi­den­za del­l’er­ro­re di per­cor­so, parla di fine della sto­ria, di fine della fi­lo­so­fia. Esi­sto­no, for­tu­na­ta­men­te, anche le altre, che, scel­te da co­lo­ro che, tor­nan­do senza posa a rin­no­va­re i sem­pre nuovi an­ti­chi per­cor­si, con­ti­nua­no a svol­ge­re le loro spire in-​ter­mi­na­bi­li, so­spe­se fra l’apei­ron del La­bi­rin­to e il pe­rie­chon che lo av­vol­ge: aspet­ti com­ple­men­ta­ri ed in­scin­di­bi­li della Tra­scen­den­za che per­mea di Sé il den­tro e il fuori, e che, pur sfug­gen­do alla presa, sem­pre ed ogni dove fa cenno.


E, tutti gli in­nu­me­re­vo­li anel­li che l’uo­mo trac­cia nelle in­nu­me­re­vo­li vie del La­bi­rin­to delle in­nu­me­re­vo­li vite, se non im­boc­ca­no vi­co­li cie­chi, anche se non tro­va­no sboc­co e cen­tro, tut­ta­via tutti, in di­ver­si modi, per dif­fe­ren­ti iti­ne­ra­ri, le­vi­gan­do per così dire le pa­re­ti dei cor­ri­doi che in­ces­san­te­men­te per­cor­ren­do con­su­ma­no, la­scia­no alla fine tra­spa­ri­re una qual­che luce al di là di esse, segno ap­pun­to di una co­mu­ne Tra­scen­den­za, di una«Luce alla cui luce ve­dia­mo la luce»(cfr. salmo 36 (35), e il com­men­to di Ago­sti­no). E così anche Cac­cia­ri, pur nel suo ruo­ta­re in senso in­ver­so ri­spet­to a quel­lo qui ten­ta­to, e par­ten­do dun­que dalla do­man­da sulla cosa («esi­ste un nome che dica, o al­me­no in­di­chi, la cosa sub spe­cie ae­ter­ni­ta­tis? (p. 340)») giun­ge poi a tra­scen­de­re il pro­ble­ma del suo in­di­ci­bi­le ka­th’au­to, per im­mer­ger­lo nella luce dell’Aga­thon, ed a porre così la do­man­da sulla co­no­scen­za e predicabilità in ge­ne­ra­le dei phai­no­me­na, e «cioè in­ter­ro­gar­ci sul perché della loro stes­sa luce (p. 342, e frase con­clu­si­va del­l’o­pe­ra) ».


Ed è, que­sta luce, non solo la luce di ogni cosa, ma, ap­pun­to, è luce che spin­ge alla per noi ul­te­rio­re, ma in sé prima do­man­da, sulla Luce alla cui luce ve­dia­mo la luce. In que­sta Luce-​Aga­thon si in­con­tra­no, forse, que­sti la­bi­rin­ti­ci per­cor­si.Non come in un punto di ar­ri­vo con­si­sten­te, ov­via­men­te, ma per an­co­ra an­da­re. E, se finché c’è vita l’an­da­re non può mai tro­va­re con-​clu­sio­ne, piace in­ve­ce con­clu­de­re que­sto scrit­to, pro­prio perché il viag­gio (di que­sta vita) non può che con­ti­nua­re, con un pen­sie­ro di mons. Cre­pal­di, che bene il­lu­stra il no­stro più pro­fon­do di-​lemma, che non è solo an­ti­te­si lin­gui­sti­ca, ma di vi­ta­le orien­ta­men­to: nel no­stro ine­vi­ta­bi­le vi­ve­re an­dan­do ed an­da­re vi­ven­do, pos­sia­mo(dob­bia­mo) sce­glie­re fra es­se­re va­ga­bon­di o es­se­re pel­le­gri­ni.


Copyright © 2016 Piero de Colombani


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Un antico manoscritto siriaco raffigurante il labirinto di Gerico, Biblioteca di Beirut, Libano.

Il labirinto



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