[...] le maschere del centro Sardegna che in maniera evidentissima, in pieno Settecento, ancora replicavano i loro riti per un dio chiamato Maimone, di cui si ricordano ancora le invocazioni per la richiesta della pioggia. Un dio del quale ogni anno si rappresentava la passione che aveva subito prima di morire, attraverso la passione che si infliggeva a una vittima umana che solo all’ultimo momento, prima di essere gettata sul rogo, veniva sostituita da un fantoccio, spesso chiamato Zorgi (il fecondatore). Che questa vittima simboleggiasse una divinità pagana, il Vassallo ben lo sapeva e pertanto tutte le sue prediche fatte in gennaio, tra la festa di Sant’Antonio e San Sebastiano, culminavano con la minaccia di scomunica verso coloro che, pur ritenendosi cristiani, ancora ricordavano questo dio (Dioniso Mainoles) nelle loro esibizioni, ostentando ossi di animali che, secondo la credenza, avrebbero dovuto rigenerare nuova vita.
Un rito propiziatorio di fertilità che ricordava antiche usanze presenti persino tra i Celti, come quella del dio Thor che dopo aver mangiato la carne dei suoi capri ne riunisce gli ossi e questi riprendono a vivere. Leggende antichissime, che partivano da rituali di caccia per poi strutturarsi in forme religiose. Sicuramente il Vassallo conosceva le prediche fatte contro i mascheramenti durante le calende di gennaio da diversi Padri della Chiesa.
Restano famose ancora oggi quelle attribuite a Sant’Agostino. Dioniso era divinità traco-frigia entrata tardi nella Grecia classica, ma ben conosciuto nel mondo cretese-miceneo.
In Sardegna penetrò in tempi lontani, probabilmente attraverso i Micenei, intorno al xiii-xiv secolo a.C. Quanto sia stata forte la penetrazione micenea all’interno dell’isola lo dimostrano i numerosi templi a megaron che negli ultimi decenni sono venuti alla luce.
C’è da credere pertanto che una forma di religione dionisiaca cretese-micenea (si pensi al culto della bipenne in Sardegna) sia penetrata in tempi antichissimi, non mediata dalla religione romana, benché anche Roma conoscesse il culto dionisiaco, soprattutto nella forma bacchica.
Basti pensare ai Baccanali romani proibiti dal Senato nel 186 a.C. Ma Roma conosceva anche Dioniso psicopompo, come attestano alcuni sarcofagi ostiensi e romani che rappresentano scene bacchiche. La forma tragica e cruenta del culto dionisiaco superstite in Sardegna pare non sia stata sfiorata dalla religione orfica che lo aveva reso più mite in altre regioni, e questo ne denota l’antichità. Nella nostra isola penetrò sicuramente in tempi assai lontani, nella forma più primitiva e selvaggia, e tale si mantenne per decine di secoli, se ancora il Licheri poté vederlo in un aspetto tanto cruento.
Ai suoi tempi tutte le maschere portavano ancora un carico di ossi animali sulle spalle, con funzione apotropaica e rigenerativa che, agitati, producevano quel rumore roco tipico delle bàttole, dei crotali e delle tabelle usate durante la Settimana Santa. Tale rumore, a Cuglieri, pare fosse intensificato dalle conchiglie che usavano i “Cotzulados”.
Anche le maschere degli altri paesi sono definite dal Licheri con nomi particolari.
A Ortueri le chiama Maimones, cioè col nome generico che si dà a tutte le maschere, ma a Cheremule, dove sono scomparse da tempo, sono chiamate “sos impeddados”, mentre quelle di Austis vengono dette “sos Colonganos”, il cui termine ha più o meno lo stesso significato.
Il termine che il Licheri usa per definire le maschere di Samugheo è “Ossudos” che equivale a “garrigados” con cui definisce quelle di Mamoiada le quali portano ugualmente un carico di ossi sulle spalle che essi chiamano “garriga”.
Altra caratteristica che viene spesso messa in rilievo è la maschera di sughero (caratzas de ortigu), che sembrano portare quasi ovunque tutti, tranne quelli che avevano il volto imbrattato di fuliggine e sangue. Non si parla mai di maschere di legno.
La maschera lignea richiede un impegno e una maestria nell’esecuzione che non tutti dovevano possedere. La maschera di sughero poteva invece essere modellata con facilità da chiunque.
Inoltre aveva la caratteristica della leggerezza. Con tutta probabilità, finito il rito, veniva gettata nel fuoco come il fantoccio. Rinnovarla anno dopo anno come si rinnovava il dio e la vegetazione che rappresentava doveva essere nell’ordine delle cose.
È probabilmente per questa ragione che non ci sono pervenute maschere lignee molto antiche. Senza volerlo, il Licheri conferma cose già intuite, come ad esempio il perché una persona folle o poco avveduta è chiamata ancora oggi Mamuthone o Maimone.
Dai suoi versi veniamo a conoscenza di cose finora solo sospettate e mai accertate: la vittima del carnevale, quella che doveva rappresentare la passione e la morte del dio della vegetazione, dell’ebbrezza e dell’estasi, veniva stordita oltreché col vino, anche con una certa dose di sostanze tossiche.
Questo spiega anche perché tale vittima, nei carnevali sardi, è scomparsa prima delle altre maschere e perché in alcuni paesi dove il carnevale è stato riesumato, la vittima manca.
Tratto da "I Carnevali e le maschere tradizionali della Sardegna" di Dolores Turchi
Maldalchimia.blogspot.com
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Le maschere del centro Sardegna
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