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mercoledì, ottobre 23, 2024

💛"Il grano e la Dea". Pane sardo /infornatrice

 In Sardegna esisteva la figura dell’ ‘infornatrice’, addetta alla delicata fase della cottura del pane in forno. 

‘Fuori c’era la neve e peggio di noi stava la donnina che aveva scelto il mestiere di infornatrice di pane; essa no, non si lasciava sedurre dal sonno e tutti i giorni, e spesso, tutte le notti se la passava davanti al forno a combattere con quelle larghe rotonde focacce che tendono a gonfiarsi, a scoppiare, a bruciarsi in un attimo e pare lo facciano a dispetto contro la paletta che le volta e rivolta e batte su di loro come la mano materna sul sedere grassoccio dei bambini cattivi’ (dalla novella intitolata ‘Il pane’). 

In questo racconto della Deledda, dietro l’immagine dell’infornatrice che combatte con le focacce di pasta, si avverte tutta la difficoltà di un mestiere ‘minore’, ritagliato nella quotidianità di una realtà ‘marginale’, affidata alle braccia di povere donne che lavoravano, spesso, soltanto per un tozzo di pane o una minestra calda. 

Il pane tipico dei pastori barbaricini, quello che li accompagnava nei lunghi periodi di transumanza, lontano da casa, è il cosiddetto ‘pane carasau’ o ‘carta da musica’, che, talvolta, fungeva anche da piatto. 

Originario delle Baronìe, un’ area compresa tra la provincia di Nuoro e i territori più interni del Logudoro, nel nord-ovest dell’isola, è considerato tra i pani più antichi del mondo. La caratteristica sfoglia tonda, non lievitata, sottilissima e croccante ci riporta alle prime tipologie di pane prodotte nel bacino mediterraneo. Alcuni ritrovamenti archeologici fanno ritenere, con molta probabilità, che il ‘pane carasau’ si producesse già nell’età del bronzo, agli albori della civiltà nuragica. Bagnato nel siero del latte, condito con formaggio e pomodoro, prenderà il nome di ‘pane frattau’. 

Un altro piatto tipico dei pastori transumanti è il cosiddetto ‘pane incasau’, ammorbidito in acqua o siero e condito con uova e formaggio. Come in altre zone del Mediterraneo, anche in Sardegna il pane sembra assecondare un ordine sociale ben preciso.

 ‘C’era anche il pane nei canestri, il pane grigio d’orzo per l’ovile, il pane scuro per la serva, il pane bianco per lei’ in questo brano tratto dal romanzo deleddiano ‘Marianna Sirca’, i vari strati sociali sembrano contrassegnati da una speciale cromìa alimentare che va dal nero al bianco. 

Ritorna, dunque, il confronto tra ‘su tzichi’ e ‘su crivazu’, tra ‘pane bianco’ e ‘pane nero’ proprio delle società subalterne, in cui il contrasto ‘ricco-povero’ si evidenzia soprattutto a tavola, nella alimentazione. Del resto, ‘la storia del pane traduce in termini alimentari una lunghissima battaglia di classe - scrive Piero Camporesi - indicando senza possibilità d’equivoci i due opposti versanti: pane bianco di frumento per le ‘bocche da pane’ cioè per i ricchi e per i cittadini, pane scuro, nero, meno nero, nerissimo per le ‘bocche da biada’, i contadini e il proletariato urbano’. 

Quello d’orzo (‘orghiathu’, ‘pistoccu de orgiu’ o ‘orju’) era il pane tipico dei pastori transumanti, e ciò perché, si conservava molto a lungo, anche per diversi mesi. In particolare, l’orzo, in Barbagia e nelle altre zone interne della Sardegna, era considerato un ‘alimento-rifugio’, in quanto cresceva anche nei terreni meno fertili, giungendo a maturazione un paio di mesi prima del grano. 

Inoltre, il suo consumo aumenterà durante la seconda guerra mondiale, quando la tessera annonaria attribuiva alle famiglie solo limitate quantità di grano. 

Di solito, il pane d’ orzo viene preparato da metà maggio a metà luglio, quando le scorte di grano duro sono esaurite e ancora non si è raccolto quello nuovo. Nelle famiglie più povere ‘su orghiathu’ era consumato durante tutto l’ arco dell’ anno. Con il cruschello dell’orzo si faceva il pane per i cani di campagna, il cosiddetto ‘sa tippe’. 

Nelle cattive annate, in Ogliastra, si panificava perfino con l’ argilla e con la farina di ghiande selvatiche, come ci fa sapere Grazia Deledda: ‘(Moisé) ci diceva che in certi paesi della Sardegna si fa anche il pane di farina di ghiande, al quale si mescola una certa argilla che lo fa diventare più saporito’ (dalla novella ‘Il vecchio Moisé’). 

E’ questo il cosiddetto ‘pan’ispeli’, pane poverissimo che oggi, invece, unto di lardo, viene considerato una vera leccornia. Il pane, molto spesso, viene ad assumere una dimensione etica, metafora di un vissuto quotidiano sofferto, segnato da rinunce e privazioni. 

Un inverno senza pane era visto come una vera e propria sciagura, quanto di peggio potesse capitare. 

‘L’inverno fu lungo e rigido - narra la Deledda nella novella ‘La porta aperta’ - la povera gente soffriva la fame e prete Barca e una dama che viveva nel vicinato mandava pane e legumi a tutti i poveri’. 

Il pane per i poveri era una consuetudine diffusa, non a caso, nelle aree più depresse, segno della umana solidarietà contadina. 

‘Ogni primo sabato del mese Apollonia faceva anche ‘il pane di S.Antonio’, cioè una certa quantità di focacce che il prete benediceva e distribuiva ai fedeli più poveri all’uscita della chiesa’, in questo brano tratto dalla novella ‘Nel deserto’, la Deledda fa riferimento all’usanza, da parte delle donne benestanti, di preparare il pane per i poveri della comunità.


Tratto da Maria Ivana Tanga "Il Grano e la Dea" Prima Edizione Collana “Saggistica Aletti”

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Il grano e la Dea



















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