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venerdì, ottobre 14, 2022

💛Le Panas

 Le panas. 

Parlare di panas significa parlare di suggestive creature fantastiche connesse strettamente con il mondo acquatico. 

Calvia le ha definite non a torto lavandaie notturne, e il ruolo di pana è rivestito, nella tradizione di Sardegna, esclusivamente dalle donne. Note in tutta l’Isola, oggi il ricordo della figura si sta lentamente affievolendo. 

Il nome e la descrizione Wagner vede alla base del nome panas, il greco panus, termine medico che sta ad indicare “gonfiore”. 

In generale, come accade per tante altre creature, il nome varia in base alla regione: in Gallura ad esempio, si conoscono con il nome di paltuggiane, in altri casi le si ricorda come pantamas. 

Qualsiasi sia il nome loro affidato, si tratta di puerpere morte di parto, momento critico per la vita di ogni donna sarda. La tradizione ricorda infatti che la donna dopo il parto si trova in una condizione estremamente delicata, in quanto impura. Doveva rimanere a letto per quaranta giorni, visto che la tradizione ci tiene a sottolinearlo, “la sepoltura della partoriente resta aperta per quaranta giorni”. 

Solo trascorsa la quarantena si riteneva che la puerpera fosse fuori pericolo. La prima uscita dopo la nascita del figlio la si effettuava per recarsi in chiesa, per essere incresiada . La purificazione avveniva con il semplice ingresso in chiesa e concluso il rito la donna poteva riprendere il suo ruolo di membro attivo all’interno della società.

E’ facile immaginare dunque che le sfortunate donne che perdevano la vita durante il parto, avrebbero avuto l’animo dannato. 

L’espiazione in Sardegna doveva essere lunga, dolorosa e da scontarsi all’interno della stessa società che le aveva accolte in vita. Si credeva inoltre che il parto di una donna richiamasse gli spiriti delle panas che avrebbero vagato nella dimora dove il lieto evento aveva avuto luogo. L’unico modo per allontanare questi spiriti invidiosi era quello di far benedire la dimora da parte di un prete, sempre che, questo è ovvio, non si volesse vivere in una casa infestata dalle panas.

E’ noto che la pratica sia stata lungamente vietata in quanto ritenuta altamente superstiziosa. 

Il Sinodo del 1566 di Usellus così recita: “In primo luogo si vieta il superstiziosissimo rito che, in sardo, viene chiamato 'incresiari in domo' cioè il sacerdote benedice, con una candela accesa e con la recitazione del vangelo, la casa della puerpera aspergendola di acqua benedetta. 

Di questo rito abusano dove una donna partorisce credendo che, col suo parto, compaiano e vaghino in quella casa fantasmi nocivi, chiamati pantamas (panas) i quali se non vengono fatti sparire con la purificazione rimangono ivi per sempre e procurano grandi molestie alla famiglia". 

Nell’aspetto le panas apparivano donne a tutti gli effetti, meglio ancora lavandaie che si attardavano presso i torrenti e proprio per questo era facile incorrere nell’errore di rivolgere loro la parola; ciò si sarebbe rivelato un grave errore. Più raro il caso in cui queste si presentassero sotto forma di fantasmi. 


Il purgatorio delle panas 

La pena è similare in tutta la Sardegna, proprio come i tratti della creatura: in tutta l’Isola la donna morta di parto è condannata a lavare i panni del bambino, sulla riva di un fiume, tutte le notti, per sette lunghissimi anni. 

Si racconta che comparissero dalla mezzanotte sino alle prime ore dell’alba, assolvendo la propria funzione in un silenzio rituale. I panni insanguinati, propri e/o del bambino, (la tradizione non è chiara in merito), venivano battuti su uno stinco di morto, su mazzoccu, e non sopra quella tavola di legno, sa daedda, comunemente impiegata dalle lavandaie diurne sarde. 

Normalmente questi esseri erano innocui, ma potevano divenire pericolosi se disturbati. Chi interrompeva il lavoro di queste creature dannate veniva severamente punito: la reazione violenta era del tutto comprensibile visto che quando interrotte con inutili chiacchiere o chissà che altro, le panas dovevano riprendere da principio la penitenza per nuovi sette anni. 

Non ci si sorprende che la tradizione racconti di panas crudeli, furenti e violente: potevano schizzare dell’acqua sul volto di chi aveva rotto il silenzio, ma badate bene, dell’acqua corrosiva molto simile al fuoco, o a preferenza potevano lanciare il panno che erano intente a lavare, corrosivo anch’esso, lasciando una macchia indelebile sul viso della donna colpita. Questa macchia nelle peggiori circostanze andava in cancrena portando alla morte la malcapitata disturbatrice. 


Il corredo funebre.

Esisteva però il modo per evitare che una donna morta di parto diventasse pana. 

Si doveva riporre nella bara della sfortunata dell’ago e del filo, un pezzo di tela, delle forbici, un pettine ed un ciuffo di capelli del marito ancora in vita. Quel corredo avrebbe impedito in seguito alla defunta di disturbare altre puerpere in quanto impegnata in faccende “domestiche”. 

Era però importante che il filo posto nel corredo funebre non fosse annodato: solo in questo modo la pana avrebbe potuto cucire all’infinito. Pettine e ciocca di capelli del marito avevano invece la funzione di illudere lo spirito d’avere ancora con sé il marito: non sarebbe stato necessario dunque andare a ricercarlo nel mondo dei vivi.


Tratto da "Creature Fantastiche in Sardegna" di Claudia Zedda

Maldalchimia.blogspot.com


Nell'immagine, locandina del film del 2017, "Panas, la leggenda" di Francesco Trudu. Ambientazione: Borgo Medievale di Tratalias / Santuario Nuragico di Santa Cristina e Museo Etnografico Atzori di Paulilatino / Cascata Triulintas e Cattedrale di Martis / Palazzina della Direzione Miniera di Montevecchio Guspini / Chiesa di Palmas Vecchio

Le Panas



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