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venerdì, agosto 02, 2024

💜Olimpiadi greche

 

di Mario Pescante


L'agonistica e la religione

Nell'ambito del culto politeistico degli dei ebbe origine in Grecia il cosiddetto 'culto agonistico', celebrato con l'istituzione di gare per rendere più solenni i riti religiosi. L'intento era quello di glorificare gli dei, onorandoli con l'organizzazione di agoni, nel contesto di un rigoroso cerimoniale. I giochi divennero, pertanto, un'occasione rituale e, al contempo, agonistica, in cui la vittoria nella competizione costituiva un'occasione simbolica per accostare l'atleta alla divinità. Non sarebbe possibile interpretare correttamente il fenomeno delle Olimpiadi nell'antichità se non si cogliesse, innanzitutto, questo profondo significato. Solo così si possono individuare le profonde radici dell'agonismo (oggi diremmo dello sport), identificarne i valori originari e i contenuti ideali.

Il disperso mondo delle pòleis greche ospitava centinaia di giochi, alcuni di importanza panellenica, altri di rilievo solamente locale. Ma, ovunque, gli ingredienti di base delle celebrazioni erano gli stessi; da una parte i riti religiosi con le processioni, i sacrifici, le offerte votive, le preghiere; dall'altra, le feste agonistiche con i loro giochi. Sia che si trattasse di agoni musicali, di retorica, di arte drammatica, di danza o di pittura, sia che si disputassero gare atletiche, al centro di queste attività c'era sempre l'agòn, l'agonistica. Coristi, musici, dicitori, danzatori, araldi e drammaturghi gareggiavano e venivano premiati alla stessa stregua degli atleti.

Bisogna però intendersi bene sul significato che gli antichi greci davano all'agòn, cioè alle competizioni regolate da norme. "L'importante è partecipare, non vincere", proclamerà il fondatore dell'olimpismo moderno, Pierre de Coubertin. "L'importante è vincere" era, invece, la regola basilare dell'agonismo greco. Partecipare alle competizioni non costituiva, di per sé, un titolo di merito, poiché solo la vittoria dava la gloria, accostava gli atleti agli dei, li avvicinava all'Olimpo. Non esisteva il 'podio', non erano previsti riconoscimenti per il secondo e terzo classificato. Non essere primo significava perdere e questo era tutto; la sconfitta era considerata un'infamia, un disonore. Questa caratteristica dell'agonistica greca era collegata alla tradizionale concezione dell'uomo eroico, così come veniva celebrato nei tempi arcaici. "O corona o morte" gridavano gli atleti prima di scendere in campo all'epoca dell'occupazione romana. Nelle imprese degli antichi atleti, dunque, non trovava certamente posto il moderno concetto del fair play. Altro elemento peculiare dell'agonistica greca era l'assenza nei programmi dei giochi panellenici delle gare a squadra. La vittoria spettava al singolo individuo, la gloria non poteva essere condivisa con i compagni, ma soltanto, come declamavano gli antichi poeti, con la propria famiglia, i propri antenati, la propria gente. Così pure non sono mai stati tramandati record, ma piuttosto primati di 'qualità': pugili senza cicatrici, lottatori imbattuti, vincitori senza combattere, perché si erano ritirati tutti gli avversari.

I giochi atletici si svolgevano per commemorare la scomparsa di grandi personaggi, la cui memoria veniva perpetuata attraverso le imprese degli atleti, anche allo scopo di esorcizzare la morte. Vita e morte, infatti, per gli antichi greci, erano in relazione dialettica tra loro; di conseguenza, secondo le antiche credenze, gli atleti che gareggiavano nei giochi traevano vigore proprio dagli eroi scomparsi, in onore dei quali si svolgevano le competizioni. La continua rigenerazione della speranza era rappresentata dal sacro fuoco, che ardeva incessantemente nell'Altis, il recinto di Olimpia. Ebbe così origine il culto agonistico che metteva in contatto il mondo della religione con quello dell'atletica, conferendo alle gare un carattere di sacralità. Per questo motivo i luoghi che ospitavano i principali giochi panellenici erano generalmente sede di culti religiosi. Solo con il trascorrere dei secoli il collegamento tra competizioni e riti religiosi andò attenuandosi e i giochi subirono una graduale trasformazione, diventando l'occasione specifica per praticare attività agonistica.

Per quanto riguarda l'individuazione di un periodo ben determinato in cui collocare la nascita dei giochi atletici nell'antica Grecia, le fonti di riferimento sono generalmente quelle letterarie. La descrizione più antica di competizioni appare nel XXIII libro dell'Iliade, che offre una minuziosa rappresentazione delle gare organizzate da Achille, sotto le mura di Troia assediata, per accompagnare i riti funebri celebrati in onore di Patroclo, ucciso in duello da Ettore. Il racconto dei giochi è senza dubbio il più completo fra le antiche descrizioni dell'agonistica greca ed è riferito quasi fosse un resoconto giornalistico moderno, ciò che è ancor più sconcertante perché Omero probabilmente visse due secoli prima dell'inizio dei Giochi Olimpici e tuttavia fornisce una descrizione copiosa e analitica delle competizioni. Le prove descritte sono otto: due corse, a piedi e con i carri; due lanci, disco e giavellotto; tre combattimenti, pugilato, lotta e scontro con le armi; una di destrezza, il tiro con l'arco. La maggior parte di queste gare costituì successivamente il programma di base dei Giochi Olimpici.

I competitori dell'Iliade provengono esclusivamente dal gruppo dei nobili guerrieri che comandano l'armata greca. Le corse si svolgono in un impianto di fortuna, ricavato adattando all'uopo il terreno esistente. Il percorso è delimitato ai due lati da pietre cuneiformi; come indicazione per invertire la corsa, al termine del rettilineo, è usato un tronco in legno interrato, denominato mèta, contornato da grandi macigni. Il racconto inizia con la corsa dei carri, la più aristocratica di tutte le gare, monopolio dei capi militari che partecipano alle battaglie sui loro cocchi. Una serie di nozioni tecniche si ricava dalle raccomandazioni di Nestore di Pilo, famoso auriga, al figlio Antiloco, che ha come avversari i favoriti Diomede, Eurialo e Merione. Per questa corsa Achille mette in palio cinque premi, uno per ciascuno dei concorrenti, un'eccezione, che si ripeterà anche nelle altre prove, rispetto alla pratica comune nell'agonistica greca, dove di regola veniva assegnato un riconoscimento solo al vincitore. Segue la descrizione delle altre gare, il pugilato e la lotta, discipline che occupavano un ruolo importante nell'educazione atletica achea. Anche nel pugilato vengono messi in palio due premi, uno per ciascuno dei due concorrenti, che hanno le mani ricoperte da una speciale protezione costituita da strisce di pelle intrecciate sul polso; le dita sono libere e possono così serrarsi a pugno. La competizione di lotta vede contendersi la vittoria Ulisse e Aiace, i due eroi achei che rappresentano le caratteristiche tipiche di questa disciplina: l'astuzia e la forza. Il combattimento è estenuante; i due lottatori si afferrano per le braccia e restano in questa posizione di difesa così a lungo che Aiace, per tentare di dare in qualche modo un esito al combattimento, propone a Ulisse di lasciarsi sollevare alternativamente senza porre difesa. Nessuno dei due, malgrado l'espediente, riesce ad avere la meglio; vengono, perciò, ambedue dichiarati vincitori da Achille che consegna, come premio, due tripodi di metallo e otto buoi. È l'unico episodio citato da fonti scritte di una competizione dei giochi antichi terminata con una vittoria a pari merito. Si disputa, quindi, la prova di corsa alla quale concorrono tre atleti: Aiace, Antiloco e Ulisse. La gara è molto semplice: gli atleti afferrano una sbarra, dietro la quale vengono allineati in attesa del segnale di via per poi raggiungere, il più velocemente possibile, un traguardo, collocato a una distanza che Omero non precisa. Seguono le prove di lancio: nel giavellotto, di cui non sono forniti dettagli né di forma né di misure, la vittoria viene assegnata, in segno di rispetto e deferenza, al capo supremo della spedizione, Agamennone; per quanto riguarda il disco, al contrario, Omero si dilunga nel descrivere l'attrezzo, che non risulta essere il disco vero e proprio utilizzato nei Giochi Olimpicima un blocco di metallo non lavorato, che rappresenta anche il premio per l'atleta che lo scaglia più lontano. Tenuto conto delle fattezze dell'oggetto, sarebbe stato forse più corretto parlare di lancio del peso.

L'Iliade avvalora dunque la tesi secondo la quale fin dai tempi della civiltà micenea i greci avevano la consuetudine di organizzare giochi collegati a cerimonie funebri. Tuttavia anche nella maggior parte delle opere letterarie successive a quelle omeriche, lo svolgimento dei giochi è sempre concomitante con cerimonie religiose o riti funerari in onore di un dio o di un eroe. La motivazione religiosa non solo donava un carattere di sacralità alle competizioni, ma ne stabiliva anche la periodicità; i giochi acquisivano, in tal modo, una continuità temporale che ne garantiva la sopravvivenza. Naturalmente ciò presupponeva la ricerca di sedi fisse e spazi idonei ove far svolgere le gare. Per queste ragioni il popolo greco scelse come residenze abituali dei giochi località ove si celebravano culti religiosi. L'usanza di associare le onoranze funebri con i giochi atletici non fu peraltro peculiare della Grecia. In Italia, per esempio, tale legame è attestato dalle raffigurazioni di corse con i carri di combattimenti di pugilato e di lotta che si trovano su numerosi sarcofagi provenienti dalle tombe etrusche.

Lo stretto nesso esistente tra l'agonismo e la religione trovò il suo riscontro più evidente nelle origini delle principali feste agonali organizzate nell'antica Grecia: i Giochi Pitici, Istmici, Nemei, Panatenaici e, soprattutto, i Giochi Olimpici, l'istituzione dei quali ha preceduto gli altri di circa due secoli.


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