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martedì, agosto 03, 2021

Prostituzione sacra-Dolores Turchi

 Una usanza della Baronia, ma conosciuta e praticata anche in vari paesi della Barbagia, sembra rimandare ugualmente al rito della prostituzione sacra.

Quando una donna non riusciva a portare a compimento nessuna gravidanza, le veniva consigliato di mettersi indosso unu pinzu, “un indumento” di una ragazza madre nota per la sua libertà sessuale.

Così facendo ben difficilmente avrebbe abortito. 

«Quando ero molto giovane», racconta una informatrice, «conobbi a Lula una donna alla quale i figli morivano dopo qualche giorno di vita. Non trovando alcun rimedio si rivolse a una vecchia orassionarja che le consigliò di chiedere in prestito sa ’estedda ’e unu burdu (il camicino di un bimbo bastardo, n.d.a.), e di farla indossare al suo bimbo appena fosse nato. In questa maniera riuscì a salvare gli ultimi tre figli».

Indossare il camicino o la cuffietta d’un bimbo bastardo era come mettere indosso al bimbo in pericolo un talismano.

Forse il bimbo bastardo, in tempi lontani, era considerato sacro alla dea, in quanto frutto d’un amore fecondo, ovvero di una sorta di prostituzione sacra praticata dalla madre. Il bimbo era dunque benedetto, quindi in grado di trasmettere la salute a coloro che indossavano i suoi indumenti.

Viene il sospetto che il sacrificio dei bambini primogeniti, fatto nel mondo fenicio-punico alla dea Tanit, che era poi l’altro aspetto di Astarte, potesse mascherare, sotto il pretesto di voto religioso, una motivazione ben più profonda: il dubbio o la certezza che il primo figlio fosse il frutto della prostituzione sacra, e pertanto doveva essere sacrificato alla dea alla quale apparteneva.

In Sardegna sono stati trovati vari tophet, presso gli stanziamenti fenicio-punici, che testimoniano il sacrificio dei primogeniti. Sotto questa ottica risulterebbe più comprensibile la carica di sacralità e la potenza salutifera che veniva attribuita al bimbo bastardo.

Tale bimbo, anticamente, non era emarginato, come è avvenuto in tempi più recenti, dopo l’avvento del cristianesimo. Basti pensare che molti eroi del mondo greco e orientale erano ritenuti figli di dèi e di donne mortali e spesso erano considerati semidei.

Indossare perciò l’indumento di un bambino spurio poteva essere la lontana eco della fecondità e della salute che la dea prometteva ai suoi fedeli.

Può essere ricollegabile a questa antica credenza l’usanza, che ancora persiste a Oliena, per cui una giovane madre regala all’amica appena sposata la cuffietta appartenuta al suo primo nato.

Oggi tale gesto viene interpretato come un segno di buon augurio per la fecondità della nuova sposa.

La cuffietta si regala in genere a una persona cara, all’amica del cuore, a una sorella, a una stretta parente. Nel gesto si potrebbe ravvisare il relitto di questo culto fertilistico perpetuato in modo totalmente inconscio. È interessante notare anche che sas orassionarjas che consigliavano queste pratiche venivano chiamate, a seconda della zona, deinas, maghiarjas o bruxas ed erano in genere ritenute donne dai facili costumi.

Benché temute, erano ricercate per le arti magiche e terapeutiche di cui si credevano depositarie, ma erano tenute ai margini della società proprio per la disinvoltura con la quale trattavano le persone dell’altro sesso.

Il termine bruxa in Barbagia e nel Logudoro indicava la donna di facili costumi, ma nel Campidano aveva il significato di indovina, cioè di colei che in Barbagia veniva detta deina o diina (dal latino divinus). Michelangelo Pira, spiegando il significato della parola bruxa, scrive: «È chiaro che siamo ancora nel campo del sacro, nel quale cadono anche il demonio e il sesso».

Le deinas e le orassionarjas della Barbagia venivano spesso chiamate bruxas per spregio, volendo sottolineare che alla qualità di indovine e guaritrici abbinavano anche quella di prostitute.

Nel Campidano esiste anche il termine bruxu, al maschile, sempre col significato di indovino.

Se l’attività del bruxu e della bruxa viene inquadrata in una sorta di prosecuzione inconscia, dettata più dalla consuetudine che dalla consapevolezza dell’antico culto, non è difficile vedere in queste persone una certa continuità di sacerdozio maschile e femminile protrattosi nel tempo, in modo del tutto sotterraneo.

È interessante notare anche che per ottenere la trasmissione delle formule magiche usate per guarire certi mali, la persona che viene investita di tale prerogativa deve voler bene alle capre, non deve mai maltrattarle, altrimenti le formule apprese non avranno efficacia.

Quando si parla di capre si pensa in genere all’animale che porta questo nome.

È però opportuno ricordare che anche le donne molto libere sessualmente vengono, con termine spregiativo, definite capre.

Il Wagner riporta nel suo dizionario i termini kraba e krabitta come corrispondenti a donna leggera e puttana. Egli scrive anche che col termine male krabinu sia in nuorese che in campidanese si designa la libidine.

A Cagliari e nel circondario, per definire una prostituta, si usa ancora la frase “craba de appizzu ’e monti” (capra di montagna), che sembrerebbe un’inconscia rievocazione del Capo Sant’Elia, dove si presume sorgesse il santuario di Astarte.

Le bruxas furono sempre considerate delle potenti guaritrici.

Infatti nella concezione dei fenici la prostituzione sacra non era solo la promessa della fecondità necessaria per la propagazione della specie, ma era anche una promessa di salute del corpo, quale premio divino per il sacrificio effettuato, giacché la salute è il presupposto necessario perché la fecondità si verifichi.

A Samugheo, raccontano i vecchi, le medicine più efficaci per guarire da alcuni mali potevano farle solo le donne ritenute di facili costumi, meglio ancora se possedevano qualche figlio bastardo.


Tratto da "Le tradizioni popolari della Sardegna" di Dolores Turchi


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Nell'immagine, statuetta di Astarte, risalente al VII sec.a.C., esposta al museo archeologico di Cagliari e ritrovata nelle rovine del tempio di Astarte, sul Monte Sirai, nel Sud Sardegna


Prostituzione sacra - Dolores Turchi




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