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mercoledì, giugno 23, 2021

💛Ierodulia in Sardegna (D. Turchi)

 La ierodulia in Sardegna.


La ierodulia, ovvero quel culto particolare dedicato ad Astarte, che si espletava sotto forma di prostituzione sacra in onore della dea dell’amore fecondo, è esistita anche in Sardegna? Alcuni indizi sembrano confermarlo. 

D’altra parte il culto ad Astarte nell’isola è ampiamente documentato dai reperti rinvenuti durante gli scavi. 

Gli ieroduli (da hierós, che in lingua greca significa “sacro”, e dùlos, ovvero “schiavo”) erano i servi e le serve della divinità addetti al servizio nel tempio. La servitù maschile era addetta alle libagioni e a preparare i sacrifici, quella femminile doveva curare gli arredi sacri, partecipare alle danze e, quando era necessario, praticare la prostituzione in onore della dea della fecondità. Gli ieroduli risiedevano stabilmente presso il santuario. 

Uno di questi santuari, famosi nell’antichità, si trovava in Sicilia. 

Strabone ci informa che era situato sull’alta collina di Erice e che era venerato più di qualunque altro. Afferma che un tempo era pieno di schiave sacre che venivano donate ad Astarte Ericina dalla Sicilia e da molti altri luoghi. Ai suoi tempi però era disabitato, segno, questo, che l’istituzione era già in declino (Strabone scriveva pochi decenni prima della nascita di Cristo)1. I proventi della ierodulia andavano ad arricchire il tesoro del tempio. Tale pratica era assai nota anche in Grecia. A Corinto, nel tempio di Afrodite Urania, si trovavano più di mille ierodule. 

Anche in Sardegna si suppone che vi fosse un tempio destinato a questo culto, presso l’antica Karalis (Cagliari), a giudicare da una dedica ad Astarte Ericina rinvenuta poco distante dalla città, sul Capo Sant’Elia

(...) Secondo alcuni studiosi questa forma di prostituzione traeva origine da antichi riti di iniziazione cui le ragazze dovevano sottoporsi. 

C’è chi ne ricerca l’origine nei riti di prelibazione connessi a concezioni magiche, ove si riteneva pericoloso per l’uomo il contatto col sangue, per cui la deflorazione era affidata a persone che si credevano dotate di poteri neutralizzanti, come gli sciamani in alcune società o i capi tribù in altre. Non è improbabile che fosse legato a questo concetto il fatto che le donne babilonesi, prima di sposarsi, si facessero deflorare da uno straniero presso il tempio della dea, forse credendo di liberare in tal modo dalla contaminazione del sangue i loro mariti, ma obbedendo comunque a un tabù iniziale di cui non si aveva più coscienza. 

Scrive Erodoto nel i libro delle sue Storie:

"L’uso più riprovevole dei Babilonesi è il seguente. Ogni donna indigena deve, per una volta nella sua vita, prendere posto nel santuario di Afrodite ed unirsi ad uno straniero. Molte che, orgogliose della loro ricchezza, sdegnano di mescolarsi alle altre, si recano presso il santuario su cocchi coperti e vi rimangono con grande seguito di servi. Ma la maggior parte fanno così: seggono in folla nel recinto di Afrodite con sul capo una corona di corda. Le une vengono, le altre vanno. Corrono fra loro in ogni senso passaggi tracciati da funi, dove gli stranieri circolano e salgono. E quando una donna ha preso posto non ritorna a casa finché uno straniero, gettatole del denaro sulle ginocchia, non le si unisca fuori del santuario. E deve soltanto dirle nell’atto di gettarle il denaro «Ti chiamo in nome della Dea Mylitta». 

Gli assiri chiamano Mylitta Afrodite. 

La somma è quale che sia: non c’è pericolo che venga rifiutata: la donna non ne ha il diritto. E questo denaro diviene sacro. 

Ella segue il primo che glielo getta e non rifiuta nessuno. Dopo essersi unita la donna ha compiuto i suoi obblighi religiosi verso la Dea, se ne torna a casa, e in seguito non potrai darle una somma così grande da conquistarla.

In tempi più recenti, tra le popolazioni semite, la prostituzione sacra venne a poco a poco mitigata e le ragazze che non volevano più praticarla deponevano sull’altare di Astarte, come pegno sostitutivo, le proprie trecce. Questa offerta è durata fino a tempi molto recenti, specie in Sardegna, senza che se ne conoscesse più il significato. Ancora agli inizi del Novecento capitava spesso che, per voto, le ragazze si tagliassero le trecce e le deponessero ai piedi di sant’Anna, considerata la protettrice delle partorienti e invocata come “Mamma Manna”, la Gran Madre. 

Tale voto era considerato una forma di sacrificio, perché ci si privava di qualcosa di bello e di caro, appartenuto al proprio corpo, e poi deposto ai piedi della statua. 

Le trecce, che in genere le ragazze portavano avvolte intorno alla testa, probabilmente ricordavano molto da vicino la corona di corda intrecciata che avevano le giovani babilonesi quando si recavano al tempio di Militta, in segno di sottomissione alla dea dell’amore fecondo che le avrebbe compensate di quel sacrificio con sana e numerosa prole. Essere sterili era infatti la peggiore disgrazia che potesse capitare a una donna. Di solito in ambiente fenicio Astarte, quale dea dell’amore fecondo, veniva rappresentata nuda, nell’atto di premersi i seni con entrambe le mani. Rappresentazioni di questo tipo sono state trovate anche in Sardegna. A Efeso, ai tempi di

Paolo, era ancora fiorente il grande santuario di Afrodite, la Grande Madre degli Efesini, che veniva raffigurata con un gran numero di mammelle, in qualità di dea nutrice. 

Le tracce della ierodulia, che quasi certamente fu portata anche in Sardegna con la fondazione delle prime città fenice, possono essere rintracciate in alcune particolari credenze che attualmente vengono spacciate per superstizioni, ma che certamente un tempo avevano un significato ben preciso. 

Se durante il periodo dell’accoppiamento le pecore rifiutavano il maschio, il pastore sardo, nei primi decenni del secolo scorso, cercava ancora strane soluzioni per ovviare a questo inconveniente che avrebbe compromesso la produttività del suo gregge e conseguentemente l’economia pastorale, con riflessi negativi per la famiglia e la comunità. In questi casi il rimedio classico consisteva nell’andare a chiedere a una giovane prostituta sa vranda, vale a dire “il grembiule”, un indumento cioè che fosse stato a contatto col suo corpo. Tale indumento veniva disteso per terra, nell’ovile, in un varco dove le bestie venivano fatte passare. Il calpestio e quindi il contatto con questa veste avrebbe fatto sì che le pecore non respingessero più il maschio. 

A Galtellì si aggiunge che talvolta poteva essere sufficiente anche il grembiule di una giovane vedova considerata di facili costumi. Utilizzare per questa operazione l’indumento di una persona giovane disposta a prostituirsi, e chiedere proprio quell’indumento che ricopre il ventre, cioè quella parte del corpo preposta alla procreazione, poteva sembrare ai pastori il modo migliore per proseguire, attraverso la magia simpatica, una sorta di prostituzione simbolica i cui effetti dovevano essere pari a quelli della prostituzione rituale che in tempi lontani si praticava presso il tempio della dea. 

Quanto questo culto dovesse essere necessario per la fertilità della terra e per la riproduzione degli esseri viventi ce lo rivelano molte fonti.


Tratto da "Le tradizioni popolari della Sardegna" di Dolores Turchi


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Sono convinta che il fallo in pietra, di cui si tiene ancora il riserbo della località, finché qualcosa non si smuove, documentato dalla signora Cristina Pisanu, del quale ho parlato mesi fa, per sollecitare l'attenzione, sia un simbolo sacro di questi riti di ierodulia in Sardegna, poiché, come testimoniato personalmente dalla signora Cristina, sulla sommità del fallo, come si vede anche dalle foto, è presente del l'ocra rossa, chiaro simbolo di riti legati alle iniziazioni sessuali  delle giovani.


Ierodulia in Sardegna (D. Turchi)







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