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mercoledì, aprile 07, 2021

💛SA PASCA - LA Pasqua (Bartolomeo Porcheddu)

 .. Mi fa piacere constatare un punto di vista ad ulteriore conferma del mio percorso sulle antiche origini astrologiche della Pasqua Sarda, passando per le Domus, e per l'Egitto..


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Auguro a tutti una buona Pasqua – una bona Pasca de Abrile 

con un articolo sulle origini della Pasqua sarda.


SA PASCA - LA PASQUA


È mai possibile che uno storico vada a cercarsi “sa Mala Pasca” inseguendo proprio le origini della Pasqua? E che dire poi del linguista che rischia di inciampare proprio sulla radice della Pasca primordiale? Per risalire alla Pasqua prima della Pasqua, mi sono recato al Tempio dei Templi, non lontano dalla dimora del Gran Sacerdote, nelle vicinanze del Pozzo della Luna Piena. Per non perdermi al proprio interno, ho portato con me una corda sufficientemente lunga e robusta che possa giungere fino alla camera regale, posta all’interno dell’intricato labirinto etimologico, dove è custodito il segreto dei segreti. Intanto lego la fune ad un olivastro millenario e la assicuro con un nodo “gordiano” che nessuno può sciogliere, neppure con la spada, come fece Alessandro Magno, ingannando i sacerdoti di Gordio, l’antica capitale della Frigia in Anatolia, omonima del promontorio sardo di Capo Falcone (Stintino), chiamato da Tolomeo “Promontorio Gorditano”. Anch’io in un certo qual modo intendo raggirare i Sacerdoti del Tempio, perché per entrare nel labirinto ho scelto il Sabato, giorno da loro dedicato al rito dell’Acqua.


Mi avvolgo la corda intorno alla vita, infibulandola con tre stelle, come fosse la Cintura di Orione, e seguo nel percorso l’allineamento con la stella Polaris, la più luminosa della costellazione dell’Ursa (Orsa) minore, che segna il Settentrione. Incamminandomi subito dopo l’ingresso del labirinto trovo la stanza dei Cristiani. Al suo interno giganteggia nella parete la Pasqua di Cristo, festa della sua resurrezione, avvenuta, secondo quanto descritto dagli Evangelisti, nelle tre lune successive al Venerdì Santo, momento della sua crocifissione e morte, giorno in cui i Sardi antichi osservavano la CenaPura, da cui è scaturito il giorno di Chenàpura (Venerdì). La Pasqua è una festa mobile, poiché cade la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’Equinozio di Primavera, fissato attualmente nella giornata del 21 di marzo. Il 50esimo giorno dopo la Pasqua, ricorre la Pentecoste, in cui viene celebrata l’effusione dello Spirito Santo e la nascita della Chiesa. Figura emblematica della Pentecoste è la Vergine Maria, che intercede con la preghiera tra Dio, lo Spirito Santo e il Popolo.


Lascio la stanza cristiana e mi avventuro nel corridoio ebraico. Prima di giungere alla dimora interna degli Israeliti, punto l’occhio sulle molte similitudini cristiane affrescate nelle pareti ebraiche, come quella della Pesach, la cena rituale celebrata nella notte tra il 14 e il 15 del mese di Nisan, che ricorda l’Ultima Cena di Cristo con i suoi Apostoli. Allo stesso modo, sette settimane dopo la Pasqua, quindi dopo sette quarti di luna (un plenilunio e tre quarti), nel giorno della Pentecoste cristiana, vedo gli Ebrei ricordare la rivelazione di Dio sul Monte Sinai, dove il Signore ha donato loro la Torah, ossia le tavole della legge, affidandole a Mosè per diffonderle nel suo popolo. Ma ecco aprirsi davanti a me la sala della Pasqua ebraica, giorno in cui è rappresentato il popolo israelita che lascia l’Egitto diretto verso la “Terra Promessa”. Campeggiano sui bassorilievi scolpiti nella pietra muraria i simboli dell’esodo: la Menorah, ossia la lampada a sette braccia, e il pane Azzimo, vale a dire il pane non lievitato. 


Sembra incredibile, ma il labirinto insieme alla storia si fermano qui. Non vi sono altre uscite o percorsi. Torno allora poco più indietro e dal corridoio, a destra, mi infilo in un cunicolo laterale che mi porta nella stanza degli Egizi. Le immagini che campeggiano sono quelle di Osiride, divinità raffigurata con un grande occhio, che guarda e indica il passaggio tra il mondo dei morti, rappresentato negli inferi occidentali dalla dea Frea, che ha dato il nome al mese di Freàrgiu (Febbraio), e quello di vivi, individuato con il mese di Martzu (Marzo) attraverso l’equinozio di Primavera, quando rinasce la vita. Poco più avanti rispetto a Osiride, compare Iside, la diva che impersona la maternità, la procreazione e la benevolenza della terra che dona agli uomini i suoi frutti. Iside, secondo i sacerdoti egizi, è colei che fa risorgere Osiride dopo la sua morte, come Cristo nel giorno di Pasqua, in concomitanza della Primavera dopo l’Inverno. Iside sembra quasi l’intercessione tra il cielo e la terra, similmente a quella svolta da Maria, madre di Cristo.


Anche qui, mi trovo bloccato all’interno di un ambiente senza vie di fuga. Torno indietro e prendo il cunicolo parallelo sulla sinistra del corridoio che mi porta nell’Aula Magna (Manna) della Roma antica. Gli sfarzi e gli ori sul marmo pregiato primeggiano rispetto a quelli scolpiti sulla pietra nuda e sembra quasi che gli dei della storia abbiano trovato proprio qui la loro dimora eterna. Una indicazione su tutte cattura la mia attenzione. Sull’intera parete è rappresentata la costellazione del Toro con in bella vista la sua stella più luminosa, ovverosia Aldebaran, che i Romani chiamano Parilicium. Sotto la costellazione è scritto: Roma, 21 Aprilis [753 a.C.], perché Plinio il Vecchio dice che è questo il giorno più opportuno per vedere tale stella nel cielo notturno. A questo punto, trovo facile collegare la stella Parilicium alla divinità di Pale, in sardo Padda, Palla e Paza, protettrice di Roma, dei pastori e degli agricoltori. Pertanto, quel 21 aprile simboleggia una data fissa, anziché mobile, della Pasqua romana, che segna la nascita della città “Eterna”.


Credo di aver trovato il bandolo della matassa e risolto l’arcano, se non fosse che quel labirinto mi risveglia nella mente la struttura a T o a Croce di alcune Domus de Janas sarde. Ritorno allora nella stanza ebraica per osservare meglio nella parete una finta porta, come quella presente in alcune Domus nostre. Subito, mi arresto, perché penso alla stupidità di chi, in Sardegna, in qualche caso, ha danneggiato la roccia per trovare una porta segreta. Se davvero c’è un ingresso nascosto, ho pensato, ci deve essere anche un muro apparentemente fisso, bloccato da una lato con un perno, ma ruotante dall’altro, più o meno simile a quello scoperto nella Piramide di Cheope. Premo quindi su ogni singolo blocco di pietra, fino a quando, improvvisamente, si apre davanti a me un cunicolo che mi porta all’interno di un vasto salone, detto in sardo “Aposentu”, ovverosia stanza del riposo, in questo caso “Eterno”.


Le quattro pareti, da destra verso sinistra, così come era orientata la scrittura antica, riportano un enorme calendario lunisolare. Qui, come in Sardegna, l’anno inizia a settembre, con Cabudanni, allo stesso modo di quello ebraico, e la primavera fiorisce proprio intorno al 20-21 di marzo, similmente al mese di Nisan ebraico. Uguale alla stanza della Roma antica, campeggia nella parete la costellazione del Toro, ma con qualche particolare in più: su questo affresco passano due linee che incrociano esattamente sulla stella principale, chiamata oggi, a seconda dei luoghi, Aldebaran, Parilicium, ecc. La tinta arancione mette in evidenza il colore di questa stella gigante che disegna l’occhio del Toro o del Bue. La linea blu che passa sopra la stella segna l’Equatore Celeste (divisione del cielo in due emisferi) e la linea gialla che interseca quella blu nello stesso punto traccia il passaggio immaginario del Sole sulla Terra. 


A questo punto mi è chiaro che il Parilicium, pronunciato “parilitzu”, significa “Pare Litzu”, ovverosia “dello stesso intreccio”. Ricordo che nel sardo campidanese è ancora vivo il detto “Poni is filus in su litzu” per indicare il filo del telaio che alza e abbassa i fili dell’ordito. In altre parole, il Parilitzu riproponeva nella tela sarda quello che nel cielo accadeva quando la stella Parilicium si trovava in corrispondenza della eclittica Sole-Equatore Celeste. A causa della precessione dell’asse terrestre che ruota come una trottola, questo fenomeno cosmico era visibile fra il 4000 a.C. e il 1700 a.C. circa, ovverosia qualche millennio prima della presunta nascita di Roma. Se nei secoli successivi, l’eclittica si è spostata verso la costellazione dell’Ariete, segnando quello che ancora oggi è detto il “Punto d’Ariete”, allora, penso ad alta voce: ‘I Romani nati nel 753 a.C. non devono avere assegnato tale nome al Parilitzu, ma possono averlo solo ereditato dai Sardi secoli prima’. Infatti, Plinio il Vecchio, vissuto nel primo secolo dopo Cristo, osserva quella stella nella sua migliore visibilità dopo il 21 di aprile.


Scuoto la testa e non credo ai miei occhi quando vedo pitturato sulla parete successiva un personaggio che offre in dono il pane particolare della nostra Pasqua, chiamato a seconda dei luoghi: Còtzula o Còtzulu, Coccoi o Coccone, Angui o Anguli. Mi sforzo a comprendere cosa hanno in comune questi tre modi di indicare il pane pasquale. Il logudorese “Còtzula” e il campidanese “Anguli” significano, anche, “vongola” o “conchiglia”, quella in particolare rotonda e di colore arancione. Quindi, deduco: ‘l’Anguli o la Còtzula sono dei pani di forma circolare come una stella’. Il Coccoi nuorese, invece, si riferisce sia all’elemento tondeggiante, sia al colore “Arancione” della stella, ovverosia alla gigante Aldebaran o Parilicium. Traggo istantaneamente in sintesi il mio pensiero: ‘Come veniva chiamata in sardo tale stella?’ E ragiono: L’Albicocca, il frutto arancione per eccellenza, contiene nel secondo termine il sostantivo “Cocco”. Anche in italiano, mi viene in mente, “Cocca” è il secondo nome dell’Albi-Cocca, detta anche dagli Spagnoli “Albari-Coque”. Quindi lego questi termini al sardo “Coccoi”.


In logudorese, l’Albicocca è denominata “Barra-cocco”, in cui per “Cocco” si intende il colore arancione del frutto, mentre la “Barra” è indicativa dell’asse del carro da guerra, detto in italiano “Scocca”. Nel Piccolo Carro o costellazione dell’Ursa minore, proprio a delimitare l’angolo della Barra, è posta la stella Kochab, una gigante ugualmente “Arancione”, che per diverso tempo ha assunto la funzione di Stella Polare e che riporta con “Cocco” il suo colore. Inoltre, “Piricocco” è anche il modo di chiamare l’albicocca nella Sardegna centro meridionale, in cui per Piri- s’intende la Pera e per Cocco il suo colore. Con il guscio arancione pascola anche il lumacone, chiamato per questo Coccoi in logudorese. Cocco è inoltre un diffuso cognome sardo, riferito proprio alla stella arancione Cocco. L’uovo cucinato alla “Coque”, termine francese, ha anch’esso origine nella Conchiglia di colore arancione. A questo punto mi domando: ‘Che significato ha l’uovo inserito nel pane “Coccoi” pasquale?’. La risposta la ottengo immediatamente quando mi si illumina nella mente l’immagine dell’uovo fritto a “Occhio di Bue”. In altre parole, l’Uovo di Pasqua è la riproposizione della stella Cocco, che rappresenta l’Occhio del Bue nella costellazione del Toro. A riguardo, medito: “Ou”, (uovo) in sardo, è la contrazione con la perdita delle consonanti di appoggio dell’originario [B]o[v]u, che è similare al [B]o[v]e (Bue). 


Il pane tondeggiante, su “Coccoi de Angula” con l’uovo al centro, si preparava con la farina di orzo, come è ancora tradizione nelle terre montane della Barbagia sarda. Dal momento che l’impasto prodotto dalla farina d’orzo ha una scarsa attitudine alla lievitazione, il pane che se ne ricava viene chiamato “Àtzimu”, esattamente come il pane ebraico, o Pùrilu, ossia senza lievito. La farina di grano, invece, destinata al consumo alimentare, viene impastata con la “madrighe” (lievito madre) conservata dalla settimana precedente. L’aggettivo latino “acidus”, che si leggeva “àchidu[s]”, deriva dal verbo sardo “achidare”, che vuol dire in italiano lasciare fermentare per una “settimana” (Chida). Durante il periodo pasquale, si usa gustare in Sardegna anche su “Casu Axedu” o “Cazau”, un tipo di iogurt acido. Gli Ebrei, secondo le sacre scritture, avevano mangiato per una settimana il pane d’orzo “Àtzimu”, quindi non fermentato, destinato alla cerimonia di pasqua. Il pane lavorato con farina lievitata è detto in sardo “Pesadu”, più o meno come è chiamata in ebraico la cena rituale “Pesach”. 


Dopo queste considerazioni, mi balzano agli occhi nella terza parete alcune figure rappresentative delle protomi taurine, che già dal Neolitico vengono scolpite in modo stilizzato sulle colonne, sugli stipiti o sugli architrave delle Domus de Janas. Tali incisioni sono facilmente associabili alle sette stelle che disegnano le corna del Toro nella sua costellazione. Similmente, il candelabro a sette braccia della Menorah, simbolo dello stesso stato di Israele, riproduce le corna taurine disegnante dalle 7 stelle Iadi, riportate nella scrittura greca con Ὑάδες (Uades), che traslitterano proprio il sardo “Buadas” (del Bue), da cui è derivato il termine “Beadas” (Beate). La prima lettera dell’alfabeto è chiamata in semitico Aleph, che significa Bue, e riporta proprio il disegno tracciato da queste stelle nella costellazione del Bo[v]e. In sardo, quando si vuole tenere la porta con le due ante semichiuse, che formano una A stilizzata, si dice, per l’appunto: Pone sa Janna a unu boe (Metti la porta ad un bue).


Insieme alle protomi, sono rappresentati sui muri dei fiori in forma concentrica, che richiamano alla mente il periodo della Pentecoste cristiana, ossia il 50° giorno dopo la Pasqua, momento per i Cristiani della effusione dello Spirito Santo con l’intercessione della Vergine Maria. Tale affresco può essere associato all’arrivo del Messia, atteso sulla terra anche da Ebrei, Musulmani e altre confessioni religiose. Questa data particolare, detta in sardo “Pasca de Flores”, per la cui ricorrenza sono germogliati i cognomi sardi “Floris, Flore o Fiore, come testimonia lo scrittore Esiodo, coincide con il sorgere delle Pleiadi, l’ammasso stellare facente parte della costellazione del Toro, che, secondo la mitologia, erano figlie di Atlante e Pleione. La maggiore di queste stelle porta il nome di Maja ed è per questo che i Sardi le hanno dedicato il mese di Maju (Maggio). Il mese Majano è infatti per antonomasia il Mese del Fiore, simboleggiato dalla rosa, che sboccia con la giovinezza della natura e dell’uomo. Maja, come Iside, era la dea della procreazione, a cui ci si rivolgeva per chiedere la grazia di un figlio o di un marito. Con l’avvento del Cristianesimo, il mese Majano è diventato Mariano e il 15 dello stesso mese viene festeggiato Sant’Isidoro, la cui omonimia con la divinità di Iside mi lascia perplesso. 


I Sardi chiamano, ancora fino ai nostri giorni, i figli di questo mese Majano con i nomi di Majeddu (Antonio Maria) o Majedda (Antonia Maria). Quello che in quasi tutte le religioni monoteiste è la comparsa del Messia, in sardo rappresenta idealmente l’arrivo delle “Messi”, che iniziano proprio nel mese di Maggio, in sardo Maju, con il taglio del primo orzo da destinare agli animali, di cui il gregge, ossia il “Masone”, è il bene (roba = res) più importante. Masia, esattamente come viene pronunciato il Messia in ebraico (Masiah), è un diffuso cognome sardo che è riportato in altre varianti con Maxia. Gli storici e i linguisti moderni hanno legato il Masiah ebraico al greco Χριστός (Cristòs o Hcristo), che vuol dire “Unto”. Entrambi i termini sono però una metonimia (scambio di nome), poiché il greco Χρῖμα (Crima o Hcrima), che significa Olio, non ha niente a che veder con il “Cristo”, che invece era il copricapo dei sacerdoti filistei. «Perché battezzi se non sei il Cristo?» chiesero a Giovanni i sacerdoti giudei, quando lo interrogarono. Pertanto, Cristo era il religioso con l’elmo cristato o crestato che aveva il potere di battezzare.


Cosa sia un elmo o copricapo “Cristato” lo dice in tempi non sospetti da Cristianesimo evangelista professante il letterato romano Ovidio, vissuto proprio a cavallo dell’anno Zero di Cristo. Nella sua opera “Metamorphoses”, lo scrittore dipinge Minosse come un sacerdote e scrive: “Hac iudice Minos, seu caput abdiderat cristata casside pennis in galea formosus erat” (Minosse nascondeva il capo sotto un elmo grazioso cristato di penne). L’elmo “cristato” o “crestato” di penne è quello caratteristico dei guerrieri e sacerdoti sardi, impersonato da diverse figure riprodotte nei bronzetti nuragici, e rappresenta la nascita del sole. I profeti del Nuovo Testamento chiamano Cristo anche con il nome di Gesù, scritto Iesus, tratto da un originario Diesus, che deriva dal sardo Die (giorno). Per questo, gli evangelisti danno i natali a Cristo proprio nel giorno del “Dies natalis solis invicti” (nascita del sole invincibile o vincente), che i Sardi hanno associato alla loro primordiale “Missa de Puddu” (Messa di Apollo) per festeggiare la nascita del nuovo sole nella giornata del solstizio d’inverno. La domanda che mi pongo, alla fine, è questa: ‘Se Diesus e Cristos non erano nomi propri di Gesù, come si chiamava il figlio di Maria e Giuseppe alla nascita?’. Forse la risposta sta nel vangelo secondo Matteo, quando Gesù ordina ai suoi discepoli di non rivelare ad alcuno che egli era Cristo.   


Messo da parte Cristo, la mia mente si dirige di nuovo verso l’orzo, forse il primo alimento piantato dall’uomo. L’orzo, come il grano, una volta tagliato, veniva diviso in “Covoni”. Il Covone era costituito da 12 “Mannujos” e ogni Mannuju da 12 “Manadas”. Il Covone, detto in sardo “Mannada”, era quindi formato da 12 Mannujos. Pertanto, quando gli Ebrei dicono di aver ricevuto un Covone o una Manna, altro non era questo che la Mannada sarda, i cui sottomultipli venivano divisi per 12, tanti quante erano viste nel cielo notturno dai Magi o Macos (Astronomi) sardi le Pleiadi con Maia. La piantagione dell’orzo in Sardegna era prevalentemente destinata agli animali di allevamento. Questo genere di pianta, resistente a tutti i climi e produttiva anche in luoghi marginali dove il grano non attecchiva, rappresentava in caso di necessità una fonte sicura di sostegno quando veniva a mancare quella del grano. Il luogo dove veniva raccolto l’orzo è riportato nei documenti antichi con lo scritto “Oria”, ma pronunciato “Orza” in logudorese e “Òrgia” in campidanese. Nella toponomastica sarda si incontrano diversi villaggi medievali con tale denominazione, ma anche siti archeologici del periodo del Bronzo, come la località di Sa Domu de S’Òrgia a Esterzili. Inoltre, fanno riferimento all’orzo i cognomi sardi Sorgia (S’Òrgia), Sotgia (S’Orza) e Sotgiu (S’Orzu). L’Òrgia, intesa come festa comunitaria di sollazzo, è legata probabilmente, anche, alla produzione del malto d’orzo fermentato in birra. Con il termine Πασχητιασμός (Paschetiasmòs) i Greci traducono la libidine bestiale.


Lasciandomi alla spalle i circa quattromila anni avanti Cristo segnati delle prime coltivazioni d’orzo, volto lo sguardo verso l’ultima parete, opposta a quella frontale, che indica l’uscita. Quasi percorrendo il ciclo umano della vita e della morte, in questo muro sono disegnate con ocra rossa scene di sangue e di distruzione. Osservando quei dipinti, mi sembra di rivivere la fine dei Sardo-Pellasgi che, intorno al 1180 a.C., hanno combattuto su più fronti nel Mediterraneo orientale. Sono familiari alla mia visione i guerrieri con elmo pinnato e cornuto che si scontrano in Anatolia e in Grecia contro gli Achei, i Dori e un imprecisato numero di popoli formatisi dalla disgregazione dell’Impero Ittita. In un’immagine a fianco, come fosse contemporanea a quella precedente, gli stessi soldati contengono sul delta del Nilo, in Egitto, le mire espansionistiche del Faraone che vuole ampliare il suo regno (Tebe) in direzione del mare, dove sono situate le città dei “Popoli del Mare”. Rispetto alla precedente immagine dove i Sardo-Pellasgi escono sconfitti da Troia, dalla Grecia e dalla Anatolia, in Egitto e in Palestina, invece, resistono.


I Sardi, che gli Achei chiamavano Pelasgos per il loro caratteristico vestiario in pelle, sono denominati Peleseth in Egitto e “Pelistim” in Palestina, eponimo quest’ultimo corrotto in seguito con “Filistei”. Nella lunga guerra durata diversi anni, alla fine, oltre ad un imprecisato numero di morti da ambo le parti, perse la vita anche il faraone Ramses III, che non riuscì a conquistare le città sul mare e rimase ucciso in una congiura di palazzo orchestrata da una delle sue mogli. È forse questo il momento in cui gli Ebrei, a causa di una carestia senza precedenti, decisero di lasciare l’Egitto verso quella che loro sognavano essere la “Terra Promessa”. In realtà, quelle “Terre Cane” (Terre di Canaan), erano abitate da uomini provenienti dalla Sardegna, che millenni prima le avevano colonizzate. Gli Ebrei, all’inizio, si offrirono schiavi ai Filestei-Pelistim-Pellasgi e convissero con loro per diversi secoli, assumendone usi e costumi. A tale proposito, un passo del Libro dei Giudici recita: «Gli Israeliti continuarono a fare ciò che è male agli occhi del Signore e servirono le divinità dei Filistei». Quando poi, però, videro che il tempo dei Filistei era al tramonto e che gli Assiri si avvicinavano minacciosi alle loro città, gli si rivoltarono contro, un po’ come fecero in seguito i Plebei contro i Patrizi a Roma in altre circostanze.


I Libri della Bibbia sono stracolmi di anatemi e di spergiuri contro i Sardo-Filistei, che occupavano saldamente le zone pianeggianti sul mare e quelle interne prospicienti al fiume Giordano. Il desiderio dei profeti israeliti di fare fuori per sempre i Sardo-Filistei è espresso nel Primo Libro di Samuele: «Gaza sarà abbandonata e Àscalon ridotta ad un deserto. Asdod in pieno giorno sarà deportata ed Ekron distrutta dalle fondamenta». E seguono a dire: «Guai agli abitanti della Costa del Mare. La parola del Signore è contro di te, Canaan, paese dei Filistei. La "Costa del Mare" diventerà pascoli, prati per i pastori, recinti per le greggi. La "Costa del Mare" apparterrà al resto della casa di Giuda». Nella realtà l’Arca degli Ebrei non raggiungerà mai il Mare Mediterraneo della costa filistea poiché gli Israeliti non riuscirono durante la loro esistenza a cacciare i Pellasgi da quelle terre. I Filistei perderanno la loro libertà solo quando saranno sconfitti dagli Assiri di Tiglath-Pileser III nel 732 a.C., quasi in concomitanza con la “presunta” nascita di Roma (753 a.C.). Ancora oggi, tutti i villaggi posti nelle vicinanze del mare che gli archeologi riportano alla luce sono di matrice sardo-filistea.


Dopo aver visto l’ultima parete di questa stanza, comprendo che la parola Pasqua, riportata in aramaico con Pascha, come in sardo, è un prestito linguistico che i Sardo-Filistei hanno lasciato su quei territori più di 3000 anni fa. A questo punto mi sorgono spontanee due domande: «Cosa significa l’etnonimo Ebreo e cosa vuol dire il termine Pasqua?». Essendo un esperto di linguistica sarda, non trovo difficoltà a legare il termine Ebrei, espresso al pluralia tantum come il gregge, con il sardo centro meridionale [B]ebrei, che, con l’aferesi della consonante iniziale quando la parola che precede termina per vocale, traduce il sostantivo italiano “Pecora”. In altre parole, gli Ebrei erano considerati dal Sardo-Filistei alla stessa stregua delle pecore. «Siate forti e siate uomini, o Filistei, altrimenti sarete schiavi degli Ebrei, come essi sono stati vostri schiavi!» gridava il principe dei Filistei ai suoi soldati per incitarli a combattere.


La Pasqua, in sardo Pasca, è invece la festa della primavera e del bestiame che sostenta l’uomo. Non esiste nel vocabolario sardo parola più pronunciata e variegata in relazione ai diversi utilizzi, tutti legati al pascolo (Pasciali, Pascialzos, Pascali, Pascasi, ecc.). La Pasqua è prettamente sarda, basti pensare che nel vocabolario greco è indicata sono una volta, senza neppure altri aggettivi. La Pasqua è inoltre legata inscindibilmente al mese di Aprile, voce derivata dalla contrazione con metatesi linguistica (spostamento della consonante liquida /R/ all’interno di parola) del sardo [P]aperile o Paberile, ovverosia del pascolo primaverile tenuto a riposo, che i pastori aprivano al bestiame nel periodo pasquale. Mentre mi accingo a tornare indietro verso l’uscita, penso al significato della Pasqua nella Sardegna antica e immagino nella Pasqua di allora il benessere degli animali che pascolavano nel prato ricco di erbe nutrienti cresciute nel Paberile. La Pasqua è in quel momento, per me, la gioia dell’uomo che vede accrescere il suo bestiame per soddisfare la sua esistenza. La Pasqua è, in sintesi, la rinascita della vita sulla morte.


So di non potermi trattenere oltre, poiché il rito di S’abbadu, praticato il Sàbadu (Sabato) dai sacerdoti e dai guardiani del tempio nei pozzi sacri dopo la giornata del digiuno del Chenàpura (Venerdì), sta per finire, e non voglio farmi sorprendere all’interno del labirinto. Un unico pensiero mi balena nella testa: ‘Dovrò rivelare quello che ho visto al popolo?’ Ho il timore che se dovessi palesare ciò che è testimoniato nel labirinto del Tempio, rischierei parecchio, perché i sacerdoti non lo accetterebbero mai e mi accuserebbero di vilipendio nei confronti della loro religione, facendomi passare davvero una “Mala Pasca”. Ma se fossi così codardo da non riferire al mondo il segreto dei segreti nascosto nelle viscere del Tempio, tradirei la verità sulla storia del mio Popolo. Non credo che i Sacerdoti approveranno il mio gesto, ma penso che Dio, qualunque esso sia e a qualsivoglia religione appartenga, mi perdonerà, se dirò che la Pasqua è nata qui in Sardegna insieme alla civiltà contadina e che, per la sua naturale bellezza, è stata paragonata alle Stelle e allo stesso Messia.


Prof. Bartolomeo Porcheddu, autore, docente di Lingua Sarda


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SA PASCA - LA Pasqua (Bartolomeo Porcheddu




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