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sabato, febbraio 20, 2021

💛Carnevale della Turchi

 Dalle numerose testimonianze dei vecchi si rileva che il rito che le maschere espletavano era quasi dovunque tragico e cruento, anche nella finzione.

È emblematico a questo proposito il carnevale di Lula ricostruito nel 2003 secondo le testimonianze degli inizi del secolo scorso, quando ancora si voleva vedere la vittima sanguinante perché il sangue doveva fertilizzare la terra. 

La maschera di Lula è chiamata Battileddu, lo stesso nome che aveva la maschera di Orune ormai scomparsa. A Lula si presenta ricoperta dalla pelle di un capro, porta pantaloni di fustagno con scarponi da pastore e sul capo si adatta una calotta con corna caprine, mentre la testa è ricoperta da un fazzoletto femminile. Tra le sue corna è infisso il rumine fresco e capovolto di un caprone e tiene legato alla vita su chentu puzone, un omaso colmo di sangue misto ad acqua dal quale il liquido rosso cola lentamente. Un tempo, a detta degli anziani, tutti si avvicinavano a pungere quest’omaso perché il sangue scaturisse abbondante per fertilizzare la terra.

Lo facevano con strumenti diversi, in particolare lepas e survas (coltelli e lesine). Una poesia scritta in sardo dal poeta nuorese Antoni Canzellu Porcu, nei primi decenni del Novecento, recita:

«Battile lugulesu puntu a surva…» (Maschera lulese punta con la lesina)

Questa figura, che fungeva da vittima sacrificale, tenuta legata alla vita e continuamente strattonata da guardiani, era seguita da uno stuolo di uomini vestiti da donna in lutto che ne piangevano l’imminente morte improvvisando attitos scherzosi e tingendosi l’un l’altro il volto col sughero bruciato.

Un altro gruppo di finte donne portava con sé bamboline di pezza smembrate, che mostravano alla gente dicendo: «Te’, basalu su pitzinnu» (Tieni, bacia il bambino), oppure veniva chiesto alle giovani che lo allattassero perché stava per morire.

Era una parodia del Dionisus Junior, cui seguiva il Dionisus adulto che lasciava intravedere tempi lontani, dove la passione della vittima nella sua fase cruenta era tutt’altro che finzione.

Il suo nome, Battileddu (da battile), significa straccio, sottosella, cosa inutile ed è usato con significato spregiativo, ma poiché lo si ritrova anche come toponimo, è da presumere che un tempo il significato fosse diverso e che il nome originario fosse Bathileios, cioè ricco di messi.

Con tale nome venivano indicate anche le erme, una sorta di simulacro della divinità.

In questo carnevale di Lula si assiste dunque a uno spettacolo cruento, giunto fino agli inizi del Novecento in tutta la sua crudezza, sopravvissuto per tema della siccità che spesso stava in agguato e che si credeva di scongiurare ripetendo ogni anno questo rito macabro di morte e rinascita, che doveva rappresentare una sorta di commemorazione della passione e della morte di Dioniso.

A esibirsi in questo ruolo di vittima venivano scelti degli individui considerati folli oppure dei poveracci che, dietro compenso, si prestavano alle torture, non sempre finte. In tempi lontani pare fossero i prigionieri di guerra deportati e adibiti ai lavori nelle vicine miniere.

È probabile che in questo paese si scegliessero queste persone perché considerate esca facile e poco pericolosa, non avendo chi potesse difenderle.

Le vittime da sacrificare, non dovevano avere alcun difetto fisico e dovevano essere sempre maschili. Questi concetti li troviamo espressi anche nella Bibbia.

Altri Battileddos si univano come buoi aggiogati guidati da un terzo individuo. Su Battileddu vittima era legato con delle funi perché non fuggisse cercando di sottrarsi al suo destino di morte.

Lo tenevano alcuni Battileddos issocatores, che indossavano il costume tradizionale dei contadini, spesso logoro e rattoppato. Al suo seguito vi erano altre maschere vestite da vedove, dette anch’esse Battileddos, che fingevano di piangere e improvvisavano degli attitos (lamenti funebri).

Di quando in quando la vittima veniva punta e cadeva a terra lasciando tracce di sangue e, dopo essersi rialzata, riprendeva il suo cammino fino a quando cadeva definitivamente morta. Alla fine veniva caricata su un carretto e le donne vestite a lutto piangevano cantando attitos.


Molti secoli fa il pianto delle donne al seguito delle maschere non era finto.

Si piangeva veramente la passione e la morte del dio, durante le Dionisie agresti, così come si piangeva la passione e la morte di Adone sventrato da un cinghiale.

Ma poi si gioiva, perché si sapeva che il dio sarebbe rinato con la vegetazione. Dalla vista del sangue che doveva richiamare la pioggia non si poteva prescindere. Per questa ragione tali rappresentazioni, vere e proprie tragedie, si sono perpetuate, anche se in forma attenuata, fino a quando è durata la società agro-pastorale, perché strettamente legate all’annata agraria.

Vederle oggi, riproposte nella maniera in cui apparivano un secolo fa, turba il nostro sentire di uomini del Duemila, non certo esenti da scene orride, ma ci turba perché non vogliamo riconoscerci in una società nella quale, nonostante l’orrore, quel rito era ritenuto necessario per la sopravvivenza della comunità. Queste scene ci fanno ancor più comprendere perché la Chiesa si è sempre opposta, fin dai primi secoli, a simili rappresentazioni, del tutto fuori dalla concezione cristiana.

E ci fanno anche comprendere perché, nonostante le comunità si dicessero cristiane, tali riti continuarono a perpetuarsi, interrotti in alcuni periodi, ma subito ripristinati quando la siccità si profilava all’orizzonte.

Fu soprattutto nel Settecento, vuoi per la continua e incisiva predicazione del gesuita Giovanni Battista Vassallo, vuoi per i reiterati pregoni delle autorità civili, che il rito venne sempre più modificandosi, in modo da attenuare le scene troppo cruente.

Perciò a molti fantocci che avevano il compito di sostituire la vittima e di essere bruciati in sua vece, venivano appese al collo delle vesciche piene di sangue, da pungere ogni tanto, così come venivano applicati pezzi di interiora.

Un tempo anche il fantoccio di Mamoiada, detto Juvanne ’e Martis Sero, nascondeva al suo interno l’intestino fresco d’un capretto o d’un vitello. Prima che il fantoccio bruciasse, tale intestino veniva estratto, fatto a pezzi e sparso qua e là, per auspicare la rinascita. Ma ai tempi del Vassallo questi pezzi d’intestino erano utilizzati per legare gli ossi di cui le maschere si caricavano le spalle. Riti così macabri sono ormai divenuti solo un pallido ricordo di vecchi che li hanno uditi, durante la loro giovinezza, da altri vecchi. Cose che appartengono al passato, ma che è bene sapere per meglio comprendere l’evoluzione avvenuta nel tempo.


[...] La maschera di Orani è detta Bundu, nome che richiama uno spirito malefico. Si presenta con una grande maschera facciale di sughero tinta di rosso, il colore del sangue. È munita di corna, di baffi e di un grande naso, indossa un tabarrone nero con cappuccio e porta con sé un forcone che ne mette in evidenza il carattere agrario.

Nell’Ottocento era ancora vivo nel paese un altro tipo di maschera detta mascara de Iseria. Il significato di questo nome appare oscuro; secondo alcune testimonianze raccolte negli anni ’80, appariva vestita di pelli e seguita da altre maschere cariche di stracci, accompagnate da su Portadore, un uomo non mascherato che doveva garantire sulla loro identità.

Queste maschere si coprivano il volto con fuliggine o con maschere di legno. Portavano campanacci sulle spalle e alla vita e facendo grande fracasso andavano nelle case a fare la questua.


Alla fine del carnevale portavano con sé un fantoccio coperto di pelli e sonagli, con la testa di pero selvatio o di sughero, che chiamavano su mammuthone.

Questo veniva bruciato a Santa Croce la sera del mercoledì, “merculis de lissio”.

Dopo la sua distruzione le maschere cantavano:


Mortu nd’est Carrasecare,

como intramus in barantinu.

Compare, toccade su binu

ca est ora ’e lu buffare.

Mortu nd’est Carrasecare.


(Traduzione:


È morto Carnevale,

 ora vengono le quaranta ore.

Compare, sturate la botte del vino perché è ora di bere.


Si tendeva, come in vari altri paesi, a protrarre il carnevale fino al mercoledì delle ceneri.


Tratto da : Dolores Turchi " I carnevali e le maschere tradizionali della Sardegna"


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