Leggevo un libro, oggi, di cui riporto un brano, pubblicato l'anno scorso. Quanto mi piacerebbe invece leggere che la Sardegna non ha "imitato" da nessuno, come se tutto fosse stato importato e insegnato da fattori esterni. Questo è ciò che circola ancora oggi, con la sindrome da importazione, che abbiamo sempre avuto.
Proprio oggi ho trovato un post ( https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=2951192748251588&id=100000826741355) riguardo il tempio di Abydos, in Egitto, dove è presente il simbolo del fiore della vita completo, a 19 circonferenze.
Stavo pensando che questa perfetta struttura Sacra del fiore della vita, circolare, visto che il fiore della vita è ancora presente nella nostra civiltà nella maschera dei Boes, come simbolo della Sartiglia( e molto altro), e come esagono che lo circoscrive, nel mento del Gigante di Mont'e Prama, potrebbe essere stata la Matrice, ricca di simbologia, della struttura circolare dei nuraghi e dei pozzi sacri, visto che il numero 19 simboleggia il sole (ancora oggi l'Arcano Maggiore XIX dei Tarocchi è rappresentato dal Sole).
Avevo già nominato il tempio di Abydos in altre occasioni, nei miei post, e ora leggo che vi era una grande cantina.. Considerando che i primi antichi viticoltori furono i Sardi.
I nuraghi erano templi edificati in onore della divinità solare, luminosa, talmente perfetti, e sofisticati, come anche i pozzi sacri, che decretano la benedizione del sole che ingravida la terra e l'acqua, che mi sembra assurdo, pensare, anche solo per un attimo che gli insegnamenti ci siano arrivati dall'esterno, e questo, perché sicuramente si dovrebbe andare indietro di cronologia, almeno di alcuni millenni.
Tiziana Fenu ©®
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La costruzione circolare a tholos, nata nell’ambito mesopotamico di Arpashya Tell Halaf, si sviluppò nel nuraghe sardo: un mandala o spazio circolare sacro, spesso preceduto (come in Mesopotamia) da un corridoio o labirinto, predisposto per i riti di purificazione e iniziazione.
Il nome «nuraghe» deriva dal sumero-accadico NUR-A-AK-K-I = «lo splendore, la luce morale del santuario».
Secondo Giovanni Semerano, fu proprio da Halaf che la lingua e la cultura sumero-accadica si diffusero in occidente.
Lo stesso termine tholos, preso in prestito dal greco, deriva dal sumero TU-UL = «volta aggettante». Troviamo inoltre i nuraghi rappresentati in un bassorilievo assiro scoperto a Nimrod nel 1845.13 Una tholos si ritrova in Egitto ad Abydos, risalente ai tempi della II dinastia.
Nel nuraghe l’incontro con la divinità avveniva in una cella oscura che comprendeva un altare di legno o pietra, di fronte al quale si trovava una nicchia con la statua del dio. Questa concezione corrispondeva a quella del tempio sumero a cella oscura, posto nell’alto della ziggurat.
La stessa idea appare in riferimento alla dedicazione del tempio di Gerusalemme, quando Salomone dice: «Yahweh ha posto il sole in cielo, ma Egli ha voluto abitare nelle tenebre». Sembra infatti che la costruzione delle ziggurat avvenisse nella Mesopotamia meridionale per supplire all’assenza di rilievi naturali ove collocare la cella.
In Sardegna la costruzione del nuraghe aveva sempre luogo su un’altura, secondo l’opinione tradizionale che i monti fossero la sede degli dèi. L’edificio principale era
circondato da strutture secondarie, quali magazzini, uffici, ricoveri, sale riunione, armerie e laboratori. Progressivamente si affermò il sistema dei vani disposti attorno a una corte, come a Micene.
Fin dall’inizio il nuraghe «tese a diventare una città-tempio alla sumera: un organismo autonomo, con amministrazione religiosa e dei propri beni (terreni, bestiame, artigianato) e con personale composto da sacerdoti, artigiani, fabbri, pastori, agricoltori e soldati di professione, organi custodi del tempio, divinizzati».
Come in Mesopotamia, si costruirono delle cinte murarie multiple aventi scopo rituale e non difensivo: non circondavano infatti del tutto l’edificio principale. Il loro scopo era dividere lo spazio profano dallo spazio sacro, il temenos, altro termine preso a prestito dal greco e derivato da sumero TEMEN = «feudo del dio».
I nomi sumeri per i templi fortificati sono costruiti col prefisso BAD, che troviamo nel toponimo sardo BAD-E(2)-SI = «il baluardo, la muraglia completa il tempio». Attorno al tempio sumero, così come al nuraghe, esistevano cucine-macelli per la confezione del pane e la preparazione del cibo per i pellegrini.
In sardo logudorese i macelli si chiamano kaitza, dal sumero KA-IZI = «carne arrosto, olocausto».
Infine, i nuraghi portavano nomi che si traducono facilmente dal sumero, e i cui significati appartengono all’ambiente sacro mesopotamico. Per un elenco dettagliato si rimanda a Il sistema linguistico della civiltà nuragica di Raffaele Sardella.
Alcuni bronzetti sardi rappresentano personaggi femminili con un abbigliamento che fa pensare a funzioni sacerdotali attribuite alle donne. In Mesopotamia risulta la stessa consuetudine.
Nella lingua sarda troviamo ancora le parole sumere «lukur» e «lagar» = «sacerdote/ssa» per indicare delle sacerdotesse o suore.
I termini «orgianas» o «giana» denotano una categoria di donne leggendarie che esercitavano la funzione di sacerdotesse.
La derivazione è dal sumero UR-GI(6)-ANA/AN+a = «servo/a della protezione del cielo» o «beneficio ottenuto dagli oroscopi del sacerdote o della sacerdotessa». Altri bronzetti rappresentano Nabu, il figlio del dio sumero Shid, armato e con quattro occhi e quattro braccia.
Una statuetta di bronzo dall’abbigliamento mesopotamico è stata trovata in un deposito di ex voto presso il tempio a pozzo di Koni.
Un ulteriore bronzetto ritrovato nei pressi del tempio di Antas assomiglia parecchio a quelli siriani di Tell-Haraf: è identificato con il dio Shid per via di un copricapo insolito molto caratteristico, a strisce volanti verticali. È simile a personaggi dipinti in veste cultuale, durante una processione, in un vaso d’epoca proto-sumera.
Tratto da Diego Marin GLI EREDI DI ATLANTIDE Dal Diluvio agli Illuminati © 2022 SOLEBLU
Maldalchimia.blogspot.com
Nell'immagine, lo spettacolare nuraghe Piscu a tholos, a Suelli, in provincia di Cagliari
Brano di Diego Marin
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