Radici della tradizione de " Is Animeddasa" nella cultura Sarda.
Il 2 novembre si celebra la giornata di Tutti i morti, che qui in Sardegna assume le caratteristiche di una tradizione che affonda le radici in epoche molto lontane.
La tradizione de "Is paixeddasa" , de "is animeddas", de "su mortu mortu", de su "prugadoriu" ( dipende dalla zona, qui le chiamiamo " Is paixeddasa") , prevede la raccolta di dolcetti, caramelle, melagrane e frutta secca, da parte dei bambini che passano di casa in casa per chiedere queste offerte per le anime del Purgatorio.
Quell'importante elemento conviviale e di condivisione , come può essere il cibo, che lega il mondo dei vivi con quello dei morti.
In alcune zone si imbandisce la tavola proprio tra il 30 ottobre e il 2 novembre, di notte, in modo che i morti possano simbolicamente beneficiare ancora di quell'amore che nel mondo dei vivi passa anche attraverso la preparazione del cibo.
Mondo dei morti, con i quali si deve mantenere un buon rapporto amorevole, deliziandoli con frutta secca dalla lunga conservazione, in particolare , melagrane, oppure noci e castagne, come si faceva un tempo. Soprattutto melagrane, la mia preferita in assoluto, che con i suoi arilli color rubino, ricorda la fertilità della Dea Madre, il sangue mestruale che si moltiplica in tante gocce simboliche, considerata la frutta del Sacro Femminino, rappresentata anche nei quadri.
Pare che all'interno contenga 613 semi, la cui somma totale fa 10 (6 + 1 + 3), il numero della perfezione Divina. Melagrana come simbolo di fertilità e prosperità, oltre che simbolo di vita oltre la morte. La disgregazione in tanti piccoli semi porta altra vita, come lo smembramento del corpo di Osiride in 72 pezzi, che ha portato alla formazione della Spiga, la nuova vita dell'abbondanza.
Melagrana come simbolo di gocce di sangue mestruale, che porta vita e amore, tant'è che era il simbolo di Afrodite, la dea dell'amore.
Un frutto sacro anche a Persefone, la dea dell'oltretomba, poiché il sangue, può essere anche sangue di morte.
Melagrana estremamente usata anche in Sardegna in rituali per la gestazione per la prosperità, con grandi proprietà astringenti ed emostatiche, oltre che ad essere usata anche per colorare le fibre.
Melagrana, che con il suo rosso scuro, è collegata anche al Mosto dell'uva, con il quale si prepara la saba/sapa , base indispensabile per i tipici dolci sardi per la festività di Tutti i Santi e Tutti i Morti, come il tipico "Pan'e saba" , come le pabassinas, e come is caschettas, e spesso si offriva, specie nella zona del nuorese, sa Pippiedda ‘e tùharu, una bambolina di pasta di semola e zucchero.
Dolci che simboleggiano un inno alla vita, e che nel contempo onorano la morte, poiché sono collegati al rosso del sangue, come fonte di vita. Morte e sangue rigeneratore, rappresentato dalle melagrane e dai dolci di sapa, affinché i morti possano rigenerarsi simbolicamente nella dimensione dell'aldilà
L' Halloween americano che conosciamo tutti, non nasce in America, ma ha origini lontanissime che affondano nella terra irlandese, con la quale la Sardegna ha profondi legami genetici e culturali.
Halloween in Irlanda corrisponde allo Samhain, il Capodanno celtico, dove Hallow è la parola arcaica che significa "Santo", quindi Halloween indicava la vigilia di Tutti i Santi.
Per i celti il nuovo anno iniziava il primo novembre, quando finiva la stagione calda e si stava maggiormente a casa.
Infatti Shamuin in in gaelico, significa Summer's end, fine dell'estate.
In Irlanda infatti Samhain, significava festa del sole, in cui la morte era in sintonia con ciò che avveniva in natura, in cui nella stagione invernale la vita riposa sotto terra, dove riposano i morti. Festeggiavano il 31 ottobre con delle feste con i fuochi sacri nei boschi, a cui partecipavano con delle maschere, lasciando del cibo per i morti fuori dal l'uscio.
Festa pagane soppiantata dall' avvento del Cristianesimo, il quale celebra la festa di Ognissanti a Roma, per la prima volta il 13 maggio del 609 d. C., in occasione della consacrazione al Pantheon della Vergine Maria. Festa che poi, da papa Gregorio IV, fu spostata al primo novembre e poi nel X secolo, fu aggiunta la festa di Tutti i Morti il primo novembre.
Gli immigrati irlandesi in seguito ad una grande carestia a metà del XIX secolo, trasportarono in America questa tradizione di celebrare i morti, che poi si diffuse tutta l'America sotto il nome di Halloween.
In Sardegna era tradizione che la sera di Ognissanti, il primo novembre si accendesse "su lumiu" , composto in modo molto semplice e umile da una striscia di tessuto, una specie di stoppino, imbevuto di olio d'oliva, incastrato in un pezzo di sughero che galleggiava in un contenitore colmo di acqua, e questo veniva tenuto acceso sino alla notte del 2 novembre.
Durante la giornata del primo novembre, le campane suonavano "a morto" con un "don" lento, chiamato "s'adoppiu", quello che si usa per i funerali, fino a tarda sera, e i bambini ottenevano di pomeriggio il permesso di andare a fare is animeddas, di porta in porta, per chiedere un piccolo dono per le anime dei defunti.
"Seusu beniusu po is animeddasa, mi das fait po praxeri is animeddasa?"
"Siamo venuti per le anime, mi fai un dono, un piacere, per le anime?"
I bambini venivano congedati gioiosamente, dopo aver dato loro molti doni di Madre Terra e dolci fatti in casa con la sapa, o i dolcetti a forma di ossa di morto, e con una frase di rito, dicendo "po s'anima...", " per l'anima...", e nominando i loro defunti.
E il cibo ricevuto lo si condivideva in famiglia dopo averlo benedetto con frasi ritualistiche che poi durante la notte veniva offerto anche all'anima dei morti, poiché si riteneva potessero simbolicamente partecipare a questi banchetti benedetti dalla gioia e dall' allegria di un gesto tanto semplice come il condividere il pasto.
Dentro le tombe si creavano degli spazi appositi per introdurre liquidi e cibo, e in Sardegna questi conviti funebri si protrassero per un periodo più lungo rispetto alla loro produzione. Infatti si protrassero sino agli inizi del VII secolo d. C.
Quindi il rito de "is animeddas", o paixeddasa, o mortu mortu, o prugadoriu, e altri nomi, la questua dei bambini di casa in casa, era, ed è diffuso in tutta l'isola, poiché ha un alto valore sacrale, al di là del giubilo dei bambini per la raccolta.
Un’altra antica usanza legata al culto dei morti in Sardegna è il rito de *Is Fraccheras" (le fascine). Viene dato fuoco a delle lunghissime e grosse fascine di asfodelo (pianta considerata dagli antichi Greci legata al Regno dei morti e diffusissima qui in Sardegna ) e gli uomini più forti le portano a spalla correndo per le strade del paese, spargendo le ceneri e cercando di non spegnere le fascine.
Ciò si ricollega probabilmente alla funzione protettiva e purificatrice delle ceneri e questa sorta di prova di coraggio è propiziatoria della buona sorte.
A Seui, infatti, tra il 30 ottobre e il 2 novembre vi è anche " su prugadoriu", con l'esibizione di maschere locali.
E, legato alla simbologia della zucca come un cranio, vi era un rito, sia in Sardegna che in Corsica: cioè quello prendere i crani dal cimitero per far piovere, e il cranio in seguito venne sostituito da una zucca intagliata. Ed è per questo motivo che la zucca, e quindi il culto dei morti, in un certo senso è legato anche al dio Maimone, al dio della pioggia.
Ma per capire bene la simbologia della tradizione de "is animeddasa ", che io preferisco chiamare "is paixeddasa" ( i pani piccoli), visto che dove abito si chiamano così, dobbiamo fare un passo indietro, alla dimensione in cui la morte di un membro della comunità diventa motivo aggregante di partecipazione e di trasmutazione del dolore, attraverso una particolare ritualistica, custodita e officiata dalle donne, delle, Janas particolari, coloro che avevano "su Donu", il Dono per poterlo fare.
Coloro che tessevano attraverso il canto in rima, il legame tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti.
Le "attitadoras"
Legame che vede una continuità attraverso le mani dei bambini, custodi puri, per poi ritornare agli adulti in modo consapevole.
D'altronde la dimensione della morte è sempre stata estremamente rispettata in Sardegna.
Ne abbiamo testimonianza dalla cura che si respira nelle Domus de Janas , nelle Tombe dei Giganti, e in tempi più recenti, alla ritualistica legata al decesso di un familiare o di un conoscente, articolata su un preciso codice ,composto da gesti e lamenti ripetuti chiamato "Teu", con protagoniste le donne, che si occupavano della veglia funebre, rito che veniva chiamato "Sa ria", con la veglia che era portata avanti dalle "attittadoras", che intonavano lamenti funebri e lodi per il defunto, per enfatizzarne la drammaticità del momento( rito antico diffuso anche in altre civiltà).
Le "attittadoras" venivano chiamate spesso dagli stessi parenti per cantare le lodi del defunto, e poi venivano ricompensate con beni di prima necessità, con beni prodotti dalla terra.
Il lamento funebre, "s'attittu", a volte poteva virare verso il lamento funebre di vendetta o risentimento, se il defunto era morto per mano di altri, anche solo accidentalmente, e per questo venne scoraggiato e vietato dalla Chiesa, insieme ad altre pratiche pagane.
Di particolare importanza in questa ritualità, era la gestualità, l'oscillazione corporea , perfettamente consone alla ritualità sonora legata al suono ,al ritmo, tipica di certe tradizioni sciamaniche che hanno una funzione quasi ipnotica, ripetitiva, simile a quella di certe zone in cui queste antiche tradizioni non hanno perso la loro valenza simbolica , come in ambito arabo-palestinese, o in ambito Africano.
Ci si provoca intenzionalmente del dolore con urla, prendendo a pugni il petto , oppure graffiandosi o strappandosi i capelli, per esorcizzare con il dolore fisico, il dolore dell'anima per la perdita della persona cara
Cosi' come e' stato sempre molto diffuso in molte culture di tutto il mondo.
Tipico di queste veglie era anche la preparazione del pane "po s'anima", per l'anima, distribuito proprio per la veglia funebre. Da noi è tradizione "su pan'e saba", un vero e proprio pane a base di sapa , il mosto d'uva, uvetta, noci e mandorle.
"S'attittu" sardo è un gesto di enorme generosità da parte di queste donne speciali che hanno il "Dono", perche le "attittadoras" danno voce e suono a chi è ammutolito per il dolore.
Infatti "s'accoramentu" è un dolore senza voce , ed e' quello che colpisce chi viene colpito da un lutto.
Ed è per questo che la parola "accorau" è così simile alla parola "accorrau".
Cambia solo quella "r" in più.
"Accorau" indica chiuso nel silenzio.
"Accorrau" invece, con due "r", significa nascosto, chiuso.
Due termini che si integrano bene a vicenda e che parlano di discrezione e di rispetto.
E capire cosa si cela nello stato d'animo "de s'accorrongiu" significava capire anche il metalinguaggio delle parole Sarde, dove le donne in lutto sono "accorradasa", nascoste ,dietro su "muccadori nieddu", il fazzoletto nero delle vedove, chiamato "cuccuddada", dentro il quale respirano con il poco respiro che è loro rimasto per il tanto dolore, con su Muccadori tirato su , fin sopra il naso, quasi a volersi isolare e nascondersi dal resto del mondo.
Il nome "attittadoras" deriva dal verbo "attittai", che ha due significati, in sardo.
Infatti "atttitai" significa sia "attizzare il fuoco" , ma anche "allattare".
Derivano infatti, entrambi i significati, da "titta", il seno, la tetta. E in questa doppia valenza semantica, queste donne sarde , "is attittadoras", così come hanno allattato il bambino, così si prendono cura del fuoco della memoria, per mantenere in vita il ricordo del defunto, alimentando quel fuoco che ancora brucia tra i vivi che lo stanno piangendo. Alimentando il ricordo attraverso il canto in rima che ne esalta il ricordo.
"Attittadoras" che si prendono cura dei vivi, dei bambini , allattandoli, e che si prendono cura dei morti, attizzando ancora il fuoco in modo che loro ricordo non si dispera.
"Is attittadoras" sono come i "cantadores", quelli dei "muttetus" che cantano in rima improvvisata, e così fanno queste donne sacre in assoluta parità, tra maschile e femminile( tutta la cultura e civiltà sarda, come ho scritto molte volte, gravita intorno a questa costante ricerca di equilibrio tra le polarità opposte, è il suo segno distintivo) depositarie del Fuoco Sacro del ricordo del defunto, mentre i cantadores sono i depositari della memoria del collettivo, della comunità in cui sono inseriti.
Entrambi, sia Attittadoras che Cantadores, hanno estrema bravura nel trovare la rima tanto perché cantano con il cuore , entrano dentro la situazione.
Cantano in un modo che viene dal cuore, e danno una nuova valenza al termine "accorau", gli danno un termine positivo, danno voce ad un cuore che è muto dal dolore, che è "accorrau" nel silenzio della perdita.
Questo è un passaggio, a livello sociale e antropologico, estremamente importante, poiché si fa alleanza e comunità anche nel dolore, e le "attittadoras "si fanno carico del dolore di altre donne, pur di garantire un costante equilibrio della comunità, la continuità generativa, anche difronte a donne che non vogliono più vivere, annichilite da tanto dolore.
Le attitadoras sono Maestre, sono Janas che curano, sanno alchemizzare.
Sanno portare dentro il dolore, lo trasformano in qualcosa di bello e lo lo restituiscono in canto, in rima , cullando dolcemente il dolore di queste donne disperate e senza voce, tra le loro braccia, tra le loro parole e canti in versi, in quel gesto de "s'anninnai", del condurre alla nanna il piccolo che piange, attraverso filastrocche in rima, ritmate e accompagnate dalla stessa gestualità oscillante del corpo, del busto, avanti indietro, che concilia uno stato ipnotico lenitivo e rassicurante, terapeutico.
Che assicura la connessione in un'altra dimensione, dove il dolore si ammortizza.
Ancora una volta , ci troviamo difronte a donne sciamaniche, che operano in sinergia con gestualità, voce, suoni, cadenze ritmate, come le loro controparti maschili, e che conoscono bene la potenza di stati ipnotici alterati a fini terapeutici , alchemizzanti.
Le Bithie dalle doppie pupille.
Il lamento funebre degli antichi rituali funebri è sempre esistito, nelle società primitive, dove si fanno gesti, dei canti , seguendo una certa modularità espressiva , e contemporaneamente, intimamente coinvolti nel dolore dell'altro ,dove tutti gli elementi, gestualità, ritmica, canto, improvvisazione, agiscono in sinergia.
E anche in questo campo bisogna parlare di Dono. Di empatia, detto in termini sociologici
Ma "su Donu" è un qualcosa che va molto oltre questo ,perché nel canto funebre improvvisato, non vi è un godimento estetico, ma una sorta di talento sciamanico nell' entrare in uno stato di percezione alterata che colga il dolore dell'altro.
Notavo adesso, mentre scrivevo, che tra percezione e perfezione , passa la diversità di una sola lettera, la "c/f".
Perché percepire, accogliere , prendere "tramite", ci avvicina alla perfezione. Noi umani siamo tramite per il divino, per il mondo ultraterreno, che ci avvicina alla perfezione.
Il lamento funebre e' un momento catartico per tutta la comunità, per lenire un dolore che altrimenti sarebbe insopportabile
È una tradizione della Sardegna che è stata anche in ambito celtico, con tutta una ritualistica che prevedeva la vestizione del cadavere da parte di una sola donna , che aveva la funzione archetipale della Grande Madre preindoeuropea, di colei che da la vita e da la morte , operatrice di trasformazione e di passaggio. Ritualistica celtica, che prevedeva dei canti rimati funebri, e da parte degli uomini, festeggiamenti con cibo, whisky e tabacco, il quale veniva insufflato in segno di rispetto sul defunto , come se fosse dell'acqua benedetta necessaria per il traghettamento nell'altra dimensione.
Anche in Irlanda , vi era in abito celtico, la lamentazione funebre ritualizzata, recitata da una o più donne, che venivano poi ricompensate, e che veniva fatta per lo più in gaelico , incomprensibile ad orecchio inglese, che rendeva libera l'espressione del dolore ,della rabbia, della ribellione , che portava la luce la "verità di un uomo".
Agli uomini era riservata l'organizzazione dei "giochi" funebri più leggeri , l'intrattenimento insomma, come anche il raccontare delle storie che non riguardassero nello specifico la vita del defunto.
Invece in Sardegna si sviluppa proprio uno stretto legame tra narrazione in versi da parte de "is attittoras" e il defunto. Poiché le attittoras hanno bisogno del defunto , come "s'anninnora " ( la ninnananna) ha bisogno del bambino. Si crea un legame sacro tra attittoras e defunto, perché si cerca di essere le portavoci di tutto ciò che ha vissuto ed è stato, fin da piccolissimo.
E questo implica assoluta sacralità e un' immergersi totalmente in quella che è stata la dimensione terrena del defunto, anche se non lo si conosceva bene, ed è per questo che le attitadoras hanno il Dono di vedere oltre, di intuire come fosse il defunto in vita.
Bisogna cantare in rima, e non basta il "saper piangere" bene, ma bisogna anche avere maestria nel trovare le parole giuste e non cadere nel ridicolo, cantando cose non veritiere.
Le attittadoras ancora praticavano fino agli anni '70 /'80. Avere contatto con la dimensione "altra" sentendo l'anima che ha lasciato questa terra, non è da tutti, ed ecco perché il canto funebre ha un alto valore attivo, terapeutico e simbolico.
Si deve essere Janas, per poter essere attitadoras.
Bisogna essere delle "jannas", delle porte, dei portali, degli anelli di congiunzione tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Spesso questi canti funebri venivano annotati a mano dalle stesse attitadoras, come un archivio di suoni, di parole, di grafemi particolarizzati per ogni occasione.
Gli uomini non potevano partecipare al canto, e anzi stavano in stanze diverse rispetto alle donne.
Le donne si rivolgevano al defunto con un "coru meu" (cuore mio), a prescindere dalla relazione che avevano con esso.
Erano donne particolari, le attitadoras, che mettevano a servizio della comunità non solo le loro loro doti canore, ma anche i loro talenti in altri contesti, come la preparazione del pane, dei dolci del vino, oltre che Doni sciamanici. Donne capaci, talentuose, che spesso si tramandavano l'essere attittadora, di madre in figlia.
Una vocazione, una passione, di cui facevano parte anche le "accabadoras", coloro che si occupavano di "finire" il moribondo, di fargli finire dignitosamente il ciclo di vita.
Essere attitadoras, implica molte e profonde capacità.
Implica velocità di pensiero, velocità nel comporre rime associative, implica l' avere il senso del ritmo, della bellezza, poiché si dovevano celebrare le virtù del defunto.
Poiché nel canto delle attitadoras, vi è il racconto, la storia del defunto, un suo memoriale, anche se a volte si esagerava in iperboli o metafore, o figure retoriche che a volte sconfinavano in ridicolo, poiché non corrispondevano al vero.
E in certi casi il rischio era teatralizzare troppo.
Gli "attitos", questi canti in versi, erano sacri e benvoluti, e nessuno li ostacolava, poiché erano molto musicali e ritmici, quasi delle filastrocche gradevoli nell'ascolto, musicalmente e ritmicamente parlando, e quel in questo ricordano molto le ninne nanne che si usavano per calmare il dolore dei piccoli, per accompagnarli nel sonno.
Ecco perché la parola attitadoras rimanda alla parola "Titta" dell'allattare.
Ecco perché la tradizione di ricordare a onorare i morti, passa anche e sopratutto attraverso i bambini, attraverso la tradizione "de is animeddas" o " paixeddasa" ( i pani piccolini) in onore dei morti.
Perché i bambini rappresentano la luce, rispetto alle tenebre del mondo dei morti, e solo loro possono trovare con esso, quel punto di equilibrio giocoso e puro, che sia di canale e comunicazione con loro, intagliandosi e svuotandosi da soli le zucche, anticamente, per portarle in giro per la "questua" , e riempirle di delizie per loro e per i morti, in condivisione.
Sapendo che in esse, svuotate, dimoravano le anime dei morti, e infatti le zucche svuotate e intagliate erano chiamate, e ancora oggi, specie nella zona della Barbagia," sa crucuriga a forma conch'e mortu", la "zucca a forma di testa di morto".
La zucca come simbolo di trasformazione e rinascita, come la zucca trasformata in cocchio d'oro nella favola di Cenerentola, dove i semi della zucca, sono un simbolo di resurrezione, cioè di passaggio dalla luna nera alla luna piena, e tracciano il sentiero che, dagli inferi bui del periodo gelido, conduce al cielo luminoso della primavera e dell' estate, con il suo giallo oro che ricorda il sole.
Nell’antica Grecia era adorata una divinità delle zucche, chiamata Kolokasia Athenai, quindi con riferimento non solo alla dea Atena, ma anche alla Luna e agli influssi che essa esercita sui cicli di produzione della Terra.
Non è dunque casuale lo stretto legame tra questo frutto mitico e la Grande Madre Terra, archetipo per eccellenza, dispensatrice di cibo e, in quanto tale, simbolo di abbondanza, di fertilità e di ricchezza.
Le" animeddasa", quindi, sono le zucche svuotate, le rappresentanti, in piccolo, delle anime dei morti.
Le zucche che poi, di sera, venivano tenute accese, con dei lumicini dentro, per sentire la presenza dei defunti, ancora con loro.
Per giocare e ridere con loro, come quando si improvvisano tra gli adulti, anche loro, attittadores, e inscenano poi con il gioco, anche tra di loro, le morti finte.
Perché i bambini attraverso il gioco imparano a gestire bene le cose dei grandi.
Imparano sin da piccoli a imitare anche le attività delle attitadoras, perché il loro canto non è dissimile da "su nannai", dalle ninnenanne, dal cantare una filastrocca per addormentare i bambini, dal cullare amorevolmente.
Ecco perché per capire bene la valenza simbolica, antropologica e sociale della tradizione de is animeddasa, bisogna affondare la ricerca dal punto in cui parte la ritualistica del rispetto dei morti e della morte.
Rispetto che è sempre stato presente nella cultura e Civiltà Sarda, e che ha la sua massima espressione proprio unendo e coinvolgendo in questo rispetto anche quelli che saranno gli adulti del domani, proprio i bambini, con la loro purezza e allegria.
I depositari della continuità della tradizione, che qui in Sardegna sta sopravvivendo più che in altri luoghi, con grande partecipazione.
Poiché tutte le attività che riguardano il mondo degli adulti sono già connaturate nel gioco, che creare un mondo immaginario vicino a quello che già esiste in natura.
Il gioco stesso è cultura, e a volte si insegna il valore della morte da bambini, come se fosse un gioco segreto. Il gioco di per sé, ha una sua funzione culturale ben precisa.
Non capiscono bene perché stanno assistendo al rito funebre, ma lo capiscono con il tempo, perché ne assimilano il valore simbolico. Si impara e si ascolta, e si impara a gestire un avvenimento importante come la morte, e onorarla con rispetto.
Le risate irriverenti, il dolore, come il "witz ebraico" , quel moto di umorismo sottile, intelligente e acuto, che nasce nei campi di concentramento, la più alta forma di ironia che nasce dal dolore.
Si demonizza il dolore con una risata pura, come quella dei bambini, e in questa congiunzione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, non può che essere rappresentata dalla purezza dei bambini, che passano di casa in casa a chiedere "is paixeddasa" per l'anima dei morti.
I bambini sanno intercedere con i morti, allo stesso modo in cui le attitadoras intercedono con loro, per lenire il dolore dei loro cari.
Attraverso il canto delle attitadoras si sta in sospensione tra la vita e la morte.
Attraverso la risata pura e spontanea dei bambini, che è fautrice di vita, si è facilitati ad entrare in contatto con il mondo dei morti e si accompagna il defunto in allegria.
Per questo motivo, spesso durante "is attitos", arrivava una figura femminile chiamata "sa buffona", che sdrammatizzava nei momenti di forte tensione emotiva.
Succedeva soprattutto nella Sardegna settentrionale, ed era colei che cercava, con scherzi e battute, di far ridere i presenti una volta che il defunto veniva portato via, e in questo senso la risata era terapeutica.
E questo già rientrava in qualche variante degli attitos, dove si giocava sui doppi sensi, anche sessuali.
La risata è interconnessa con lo sviluppo delle civiltà, e lo stesso "riso sardonico", a cui dedicherò un post specifico, ne è un esempio.
Quella risata di beffa e di sfida verso la morte, perché ridendo si crea la vita, e la risata è legata al lato riproduttivo.
Le relazioni familiari si consolidano attraverso il rito degli attitos, fin da piccoli, dove gli adulti insegnano ai più piccoli a non aver paura dei morti, ad avere rispetto e a continuare a giocare come se fossero ancora vivi.
In questo, gli attitos si differenziano dalla dimensione dei cantadores, poiché mentre i cantatadores intrecciano relazioni sociali, economiche e politiche con la comunità, e cantano le vicende della storia della loro comunità di appartenenza, negli attitos tutto rimane nell'ambito della dimensione intima e familiare, poiché si racconta solo del defunto.
La partecipazione al rito funebre da parte dei bambini è come un gioco guidato dall'istinto del divertimento, nel cercare anche loro, le rime più consone, il ritmo più adatto.
Da piccoli non capiscono il valore simbolico della morte, lo prendono come un gioco. Ma è da grandi che poi entra la consapevolizzazione del capire cosa significa perdere una persona cara.
Lo sanno a livello emotivo, ma non a livello culturale e sociale, poiché gli attitos creano legami, e creano continuità nella civiltà, nella società poiché la maggior parte dei bambini sono portatori puri de "Su Donu", del Dono. Hanno attitudine all'attitus, e notate come queste due parole, " attitudine e attitus", si somiglino, perché è un'attitudine naturale, spontanea, che viene dall'anima, e che difficilmente poi in società, con strumenti "sociali", potrà essere identificata.
I talenti bisogna portarli alla luce, e per essere portati alla luce, hanno bisogno di sganciarsi dal contesto sociale, a differenza invece di ciò che fanno i cantadores, che attraverso le loro rime estemporanee delle cantadas, creano legami sociali.
Nell'attitos, si esce dal contesto comunitario e sociale, e si instaura un legame sciamanico tra i vivi e i morti.
Ancora una volta la civiltà della Sardegna si dispiega attraverso questi viaggi che mi prendono nell'intimità di certe tradizioni che finora avevo vissuto e osservato con occhio fisico, e si rivelano sotto un sentire diverso, accorato, che viene dal cuore.
Come se, giunti a questo punto del percorso, fosse necessario percepire in modo diverso e maggiormente consapevole, ciò di cui siamo stati testimoni.
Tutto questo mi fa capire come davvero i nostri antichi sardi erano dei Viaggiatori multidimensionale, in bilico in equilibrio tra gli opposti, tra la vita e la morte, e come costantemente applicassero questa abilità energetica, ogni giorno, fin da piccoli.
Un' educazione verso la vita, e verso la morte.
Morte, che è sempre stata loro alleata, perché è semplicemente un'altra dimensione, che si può affrontare anche ridendo di qualche attitos azzardato, a doppio senso, e gioendo delle risate dei bambini, limpida e cristallina come l'acqua delle Sorgenti sarde.
Una risata destrutturante, rivitalizzante, quella bambini mentre si rincorrono di casa, o mentre imbandiscono la tavola anche per loro, per la notte che verrà, e che culla nel suo ventre, le Anime dei morti.
Tiziana Fenu
©®Diritti intellettuali riservati
Maldalchimia.blogspot.com
Is Animeddasa nella cultura sarda
Nessun commento:
Posta un commento