Elogiata, criticata, contestata, a me non interessa come si è imposta come personaggio pubblico.
Mi interessa l'immagine che ha dato della nostra terra Sacra.
E quella sacralità è stata rispettata.
Con la stessa dignità e rispetto con il quale sta affrontando questo momento
Un Abbraccio, Michela♥️
"Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello.
Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l'ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l'alieno".
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"Entrarci nel vero senso della parola è invece un altro paio di maniche, e parte dalla certezza che la cosa piú interessante da conoscere in Barbagia siano proprio i barbaricini. Riuscire in questo intento è un’esperienza umana meravigliosa, che per essere gustata appieno non può prescindere dalla conoscenza di ciò che in Barbagia è altro rispetto al resto della Sardegna. La Barbagia è un territorio abitato da sardi che per ragioni storiche, geografiche ed economiche hanno vissuto per secoli in un isolamento relativo, motivo per cui questa regione è sempre stata ai margini rispetto ai processi storici che hanno interessato il resto della Sardegna. Il nome stesso di Barbagia le deriva dall’etnocentrismo culturale dei romani, che non riuscendo a penetrarci con la stessa facilità che avevano incontrato sulle coste, la liquidarono sbrigativamente come terra di barbarie. La nomea le rimase anche negli anni successivi, tanto che quando Tolomeo nel II secolo stendeva la carta geografica del mondo noto, al massiccio del Gennargentu mise il significativo nome di Insani Montes, che in bocca agli scrittori classici corrisponde, se riferita a cose, a «rabbioso», «furioso»; in verità può significare anche «eccessivamente alto», ma nessun monte sardo raggiunge vertici che potrebbero giustificare questa accezione. Nel corso dei secoli questo processo di individualizzazione culturale è continuato su tutti i fronti, aumentando nei barbaricini la percezione della propria alterità rispetto non solo ai popoli che venivano dal mare, ma progressivamente anche al resto degli abitanti dell’isola. Il risultato di questo processo è riscontrabile soprattutto nella straordinaria persistenza di usi e costumi di antichissima radice storica e culturale, altrove scomparsi o mai esistiti. Una di queste differenze nasce dal fatto che l’isolamento ha portato nei secoli la comunità barbaricina a darsi un sistema di norme non scritte percepito come autonomo. Questo codice di autoregolamentazione sociale non ha mai avuto un nome per la comunità pastorale che lo praticava, come non ha nome il buon senso; era semplicemente il modo naturale in cui ci si doveva comportare in quel contesto. Ha preso la definizione di «banditismo» solo quando, con l’avvento di un potere diverso da quello tradizionale che per secoli l’aveva governata, sono emerse le discrepanze tra l’antico sistema di norme e l’altro, quello venuto da fuori con piú mezzi politici (e militari) per potersi imporre come prevalente. Molto piú spesso in conflitto che in dialettica, i due sistemi normativi si sono sovrapposti con fatica per tutto il secolo scorso e gli echi della loro difficile convivenza persistono ancora oggi, intorno alla diversa percezione di cosa sia giusto fare in determinate circostanze della vita. Quel sistema di norme non scritte è oggi noto con il nome di Codice Barbaricino, dicitura attribuitagli dal giurista Antonio Pigliaru che negli anni Cinquanta del secolo scorso, affrontò per primo come questione essenzialmente culturale il problema posto dall’esistenza di due leggi confliggenti, che pretendevano di «regolare la condotta di uno stesso uomo» facendone un bandito o un balente, cioè un valoroso, a seconda della prospettiva. La balentía resta una buona chiave di comprensione dello spirito barbaricino, purché intesa nel suo senso corretto. Il concetto di balentía ha infatti una doppia accezione, a seconda che esso venga espresso dentro o fuori dal territorio della Barbagia. Se la parola balente viene usata da sardi non barbaricini, nove volte su dieci ha connotazione negativa e si intende riferita a persona vendicativa, prepotente e permalosa, pronta a passare alle mani alla prima provocazione e con cui non ci si può permettere la minima confidenza. Chi riceve questo epiteto viene circondato dall’aura di disprezzo guardingo che si tributa ai pazzi imprevedibili, quelli che in linea di massima è meglio temere che averci a che fare. Questa caricatura della balentía è frutto sia di un diverso quadro di riferimento normativo (e quindi culturale) tra la Barbagia e il resto dell’isola stessa, sia del falso mito mediatico del banditismo romantico, che ha danneggiato la Sardegna piú di quanto non si sia disposti ad ammettere nemmeno tra i sardi stessi, troppo spesso compiaciuti di crogiolarsi a scopo folkloristico nella fama leggendaria di popolo temibile. Non di rado chi arriva in Barbagia vittima di questo pregiudizio si trova spiazzato davanti all’apparente incongruenza di un’ospitalità calda e tutt’altro che ombrosa. La balentía in Barbagia ha un significato molto piú elevato e teoricamente segna la cifra massima della potenzialità di un uomo, l’apoteosi della nobiltà dell’animo unita alla fermezza del carattere. A livello ideale il balente è l’incarnazione della perfezione virile, che secondo il criterio strettamente barbaricino è espressa da colui che allo stesso tempo sa, sa fare, e quindi fa; le tre cose prese distintamente generano l’incapace, l’indeciso e l’avventato, tutte antitesi del vero balente, che resta persona abile soprattutto nel discernere il momento opportuno per piegare gli eventi al meglio del suo volere. Per questo nel mito la parola del balente pesa come oro e chi gli dà la propria è bene che vi attribuisca il medesimo valore. Molto chiaramente è Antonio Pigliaru a rappresentare cosa si intenda in Barbagia quando a qualcuno si dà del balente. Su balente è l’uomo che vale, che sa farsi valere e vale anche se, intendiamoci, la fortuna non gli arride, anche se la sua balentía non risulterà all’atto pratico coronata da un adeguato successo. L’importante non è vivere o morire, ma vivere e morire da uomo. […] Sa balentía è la virtú che consente all’uomo barbaricino, al pastore barbaricino, di resistere alla propria condizione, di restare uomo, soggetto, in un mondo implacabile e senza speranza nel quale esistere è resistere: resistere a un destino sempre avverso nell’unico modo in cui ciò può essere fatto salvando se non altro la propria dignità umana".
Tratto da Michela Murgia "Viaggio in Sardegna Undici percorsi nell’isola che non si vede" Edizioni Einaudi
Maldalchimia.blogspot.com
Alessandra Garau Photographer
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