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domenica, novembre 28, 2021

💛Pozzo Sacri Massimo Rassu

 Analogie architettoniche e funzionali con le tombe collettive


Malgrado le moltissime carenze, legate alla poca conoscenza dell’Età del Bronzo e alla difficoltà a trattare della religiosità in generale, si hanno sufficienti prove dell’esistenza di culti agrari, idrici e funerari, probabilmente coordinati tra loro.

La fonte della vita parrebbe essere stata la Grande Madre, che, dalla sacra oscurità del suo grembo, faceva nascere ogni essere vivente (entità che oggi chiameremmo Madre Natura), dava e toglieva la vita, si rinnovava attraverso l’eterno ciclo delle stagioni, dal tramonto all’alba, dalla morte alla rinascita.

Pur nella diversità delle strutture e delle funzioni estrinseche, sono state riscontrate diverse analogie tra tombe dei giganti, pozzi e fonti sacre (per esempio, tra la tomba dei giganti di Iloi-Sedilo e il pozzo di Su Putzu-Orroli), sia nell’architettura che nella disposizione delle offerte votive, come aveva già ipotizzato Giovanni Lilliu

Certamente, la parziale e forse anche un poco forzata similitudine tra i due tipi di monumenti non giustifica una coincidenza dei riti in essi espletati, essendo anche inerenti sfere cultuali completamente diverse. In entrambi gli edifici un atrio, protetto da due ali emergenti ai lati, precedeva un fabbricato allungato con facciata.

Il corpo edilizio principale nella tomba era una sorta di tumulo allungato, avente all’esterno un’altezza decrescente verso il fondo curvo (ossia absidato), mentre all’interno racchiudeva la camera funeraria rettangolare. Nella maggior parte dei pozzi la struttura era costituita da un corpo rettangolare (a volte coperto da un tetto a due falde) che racchiudeva la scala, e unito a uno circolare (a volte nascosto da una sovrastruttura a forma di nuraghe) in corrispondenza della camera di presa, sotterranea e cupolata. Ugualmente, nelle tombe a corridoio megalitiche dell’Europa occidentale, il corridoio simboleggiava l’utero della Grande Madre, e la tholos, o camera rotonda, il ventre gravido.

Sintetizzando, il fabbricato che nascondeva la camera funeraria, nel caso della tomba collettiva, o la scala con la camera sotterranea, nel caso del pozzo, o la sola camera di presa, nel caso della fonte sacra, era preceduto da uno spazio generalmente semicircolare (esedra) per le tombe, o rettangolare (atrio o vestibolo) per i pozzi e le fonti sacre, delimitato da due ampi bracci murari.

In questa area si svolgevano i complessi rituali: sia l’esedra (per le tombe) che l’atrio (per i templi dell’acqua) erano provvisti alla base di un bancone-sedile di pietra, dove i fedeli deponevano le offerte e svolgevano i propri rituali. Infatti, nelle sepolture nuragiche valeva la norma di non portare con sé, dentro la camera funeraria, alcun corredo od offerta.

Uno standard inderogabile, in quanto è la medesima prescrizione delle sepolture di Mont’e Prama (Cabras): nel vano, come più tardi nelle tombe a pozzetto dell’Età del Ferro, permane il principio di non introdurre offerte.

Una continuità nei precetti rituali attraverso i secoli che evidenzia una connessione religiosa pur nella trasformazione delle strutture (da una tomba con gli antenati a una cavità con dell’acqua), al punto da far pensare che non fosse il “contenuto” dell’edificio a legittimare il culto, ma il valore simbolico dell’edificio stesso, come rappresentazione materiale della divinità.

Mauro Perra ha evidenziato che, se nel Bronzo Medio e nel Bronzo Recente la devozione «appare fortemente connotata dall’aspetto funerario», durante il Bronzo Recente-Bronzo Finale si assiste alla costruzione di nuove sepolture, non più imponenti come le tombe dei giganti, ma anzi prive di esedra: nel corso del Bronzo Finale la religiosità nuragica passa «dal culto degli antenati al culto delle acque».

In alcuni casi, ulteriore prova di sostanziale contiguità sacra, a delimitare l’area di culto intorno al sacello (la parola tempio per il momento è troppo impegnativa ed equivoca), che fosse sepoltura o pozzo (o altro edificio religioso), era il recinto sacro, un basso muro curvilineo che partiva dalle estremità delle due ali e chiudeva lo spazio dell’esedra o atrio.

Lo storico delle religioni Julien Ries suggerisce che «i costruttori delle grandi tombe megalitiche dell’Europa occidentale erano pervasi di fede religiosa, erano devoti di una dea», la Dea Madre.

Tale tesi è stata confermata dall’etnologa Marija Gimbutas: per gli antichi abitanti dell’Europa la tomba era un utero, il ventre generatore della Grande Madre, e perciò sepolture megalitiche e lunghi tumuli di terra contengono, al loro interno, un lungo corridoio, a rappresentare l’utero della Dea.

Alcune tombe sono precedute da grandi atrii a forma di gambe divaricate, come nelle sarde tombe dei giganti.

Tuttavia, un’altra interpretazione vede nella tomba collettiva nuragica la testa del toro: ma l’apertura della “bocca” non è sul fondo, dove il bovino avrebbe il muso, ma alla sommità dell’ipotetico cranio, tra le due dubbie corna formanti l’esedra.

Altri indizi vedono nelle tombe e nei pozzi i segni della Grande Madre: la presenza di bozze mammillari (rappresentanti secondo Lilliu le mammelle stilizzate della Dea) nelle facciate di diversi pozzi e fonti sacre anche a paramento isodomo, come nei casi di Mitza Cuccureddus (Villaspeciosa), Irru (Nulvi), Predio Canopoli (Perfugas), Niedda (Perfugas), Sant’Anastasia (Sardara), Su Tempiesu (Orune), Gremanu (Fonni), Sa Sedda ‘e Sos Carros (Oliena), Sa Carcaredda (Villagrande Strisaili)85. Rilievi mammillari simili erano anche nei betili mammillati delle tombe dei giganti (ad esempio, Tamuli-Macomer, Sos Ozzastros-Abbasanta).

Ancor più persuasiva è la forma absidale e la planimetria di fonti (ad esempio, Mitza Pidighi-Solarussa, Puntanarcu-Sedilo) e pozzi per il culto dell’acqua, ricalcanti quella delle sepolture collettive dell’Età del Bronzo Medio, che rappresentavano l’utero della Dea Madre.

Era la stessa divinità che Ferruccio Barreca aveva riconosciuto nei pozzi sacri nuragici quale «principio cosmico della vita, espresso dalla Dea Madre della natura feconda (la Potnia mediterranea, come è definita dagli studiosi) e dal suo paredro fecondatore Babay o Merre: il Dio Padre universale, presente nell’acqua di vena».

Benché «nel semitico mondo quelle due espressioni della Fecondità divina portassero altri nomi, ma il concetto teologico era analogo e non venne mai meno», quando con i Cartaginesi giunse anche il culto di Demetra, fu «subito compresa e accettata anche dai Protosardi (quale espressione della stessa Fecondità divina femminile), che dovettero vedere in lei la loro stessa Dea Madre, come dimostrano i suoi numerosi sacelli scoperti entro nuraghi o luoghi di culto nuragico».

Convergono verso questa lettura anche i bronzi votivi – conosciuti con le fuorvianti denominazioni di La Pietà (dalla grotta di Sa Domu ‘e s’Orku-Urzulei), La Grazia (santuario di Santa Vittoria-Serri, in mezzo a ceneri e carboni di sacrificio) e Madre con bimbo in grembo (sempre a Santa Vittoria-Serri, presso il pozzo sacro) – ma nelle realtà rappresentanti la Dea Madre, la “nutrice” (in greco kourotrophos), secondo la decodificazione del Milani e del Taramelli, oppure, l’egiziana Iside con il figlio Horus, altra caratterizzazione della grande divinità megalitica.

Un’ulteriore personificazione della Dea Madre era la fenicia Tanit, il cui tempio a Nora (Pula) fu costruito smantellando un edificio nuragico in conci a T, tipici delle architetture sarde per il culto delle divinità dell’acqua.

Lo stesso tipo di conci con cui, nell’isoletta di Su Cardulinu, i Cartaginesi costruirono un tempio a Demetra presso il tofet della città di Bithia (Domusdemaria).

Ancora in età punica nel villaggio di Su Nuraxi di Barumini – caratterizzato da una decina di rotonde e tre pozzi o più (a parte quelli del nuraghe) – fu ricavato un tempietto dedicato a Cerere, dea della fertilità e dei raccolti.

Un’entità femminile tirrenica legata all’acqua, ma ormai in epoca storica, era anche la dea etrusca Uthur, a Roma chiamata Giuturna, dea delle fonti e delle acque.


Tratto da " POZZI SACRI Architetture preistoriche per il culto delle acque in Sardegna" di Massimo Rassu


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Pozzi Sacri Massimo Rassu


bronzetto n° 124,  “Madre con bimbo in grembo”, è alto 12 cm, è conservato al museo di Cagliari e proviene dal Santuario di Santa Vittoria di Serri, risalente forse al IX sec. a.C.




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